Una buona occasione
UNA BUONA OCCASIONE ( di Stefano Mengarelli)
Il Coronavirus ha portato l’Italia a vivere un periodo storico inedito e insospettato. Tutto sembra come sempre ma nulla è come prima… Ci guardiamo con sospetto, manteniamo distanze di sicurezza, il traffico delle strade a cui siamo abituati sembra un lontano ricordo (nostalgico?), scuole chiuse, cinema e teatri chiusi, gli inviti a rimanere a casa propria. Tutto molto strano, quasi irreale, ma nonostante tutto questa situazione è una grande occasione che non possiamo lasciarci sfuggire e abbiamo il dovere morale di coglierla.
Prima di tutto il Coronavirus ha reso evidente tutta la fragilità di cui è fatto l’uomo, ha evidenziato le nostre angosce e la nostra immanente precarietà attaccando i nostri deliri di onnipotenza e di autosufficienza che tirannicamente inchiodano la nostra vita a logiche di efficienza e prestazione disumanizzando l’umano.
Altra conseguenza del Coronavirus è che da ora in poi saremo costretti a riflettere sul modo in cui proiettivamente abbiamo sempre visto nell’altro il male, il virus, il problema… Ora siamo noi I possibili portatori del virus, perchè questa volta il “contagiato” non ha un volto, il “portatore di contagio” non ha una faccia ,non ha un colore, quindi siamo tutti, quindi sono io, quindi sei tu. Per la psicoanalisi tutto ció che è fuori è prima di tutto dentro e questo deve farci riflettere sulle soluzioni che nei muri trovano rassicurazioni.
Inoltre, questa situazione di “quarantena” ci da l’occasione per riflettere ed apprezzare quello che abbiamo e a cui nel quotidiano non facciamo più caso. Un paziente stamattina mi ha detto ” dottore, questo Coronavirus rende reale quello che ho”, è proprio così. Lo rende reale perché ci manca, e quindi lo desideriamo, perchè si sa, desideriamo solo quello che ci manca. Ora non possiamo abbracciarci, stringerci la mano, organizzare cene con amici, andare al cinema, a teatro.. Tutte cose che prima erano semplici pratiche quotidiane come bere un bicchiere d’acqua a cui non facevamo neanche troppo caso, visto che le nostre vite ci apparivano sempre più deludenti rispetto a chissà quale standard di vita.
La buona notizia è che ora tutto questo ci potrebbe mancare e potremmo arrivare a morire dalla voglia di tornare a riabbracciarci.
Sigmund Freud aveva ragione: le nuove ricerche lo riabilitano
Le nuove tecniche di neuroimaging provano gli effetti sul nostro cervello delle terapie psicoanalitiche. E confermano le teorie del maestro viennese
Saranno le neuroscienze a salvare la psicoanalisi? Se fino a qualche anno fa le teorie di Freud sembravano in procinto di soccombere sotto il peso del progresso scientifico, oggi proprio le tecniche di neuroimaging le rivalutano, confermandone la validità. E dando vita a un nuovo filone di ricerca che indaga le basi fisiologiche dei cambiamenti prodotti nel cervello dalle terapie psicoanalitiche, con l’obiettivo di individuare le radici fisiologiche dei concetti base della psicoanalisi. Come racconta la scrittrice americana Casey Schwartz nel saggio “In the Mind Fields: Exploring the New Science of Neuropsychoanalysis”.
Una novità radicale? In realtà Freud stesso nasce come neurologo, interessato a studiare la struttura del cervello. Anche se all’epoca le neuroscienze erano appena agli inizi, e l’esistenza stessa dei neuroni ancora in discussione. Oggi, osserva lo psicoanalista Amedeo Falci, coordinatore del gruppo Psicoanalisi e Neuroscienze della Società Psicoanalitica Italiana, «sono sempre di più gli psicoanalisti convinti che gli strumenti offerti dalle neuroscienze siano indispensabili per il futuro della psicoanalisi».
Per vedere come cambia il cervello prima e dopo la terapia si utilizzano soprattutto tecniche di visualizzazione come la tomografia a emissione di positroni (Pet) e la risonanza magnetica funzionale (fRmi). Lavorando, in genere, con pazienti che hanno seguito psicoterapie brevi a orientamento psicoanalitico, per evitare i tempi troppo lunghi della psicoanalisi classica, uno degli elementi che hanno rallentato la ricerca. «In questo modo è stato possibile verificare che la terapia della parola aumenta le connessioni tra i neuroni, e quindi la riorganizzazione del sé, inteso come unità cervello mente», dice Falci. Ovviamente le tecniche di imaging non permettono di fotografare il pensiero: «Servono a misurare l’attivazione delle diverse aree cerebrali, che devono comunque essere analizzate su base statistica». Ma anche così, i risultati sono più che interessanti.
Negli Stati Uniti gli psicoanalisti Andrew Gerber della Columbia University e Bradley Peterson del Children’s Hospital di Los Angeles lavorano insieme da un decennio per trovare conferme fisiologiche di quanto avviene seduta dopo seduta. «Lavorando con i pazienti ci rendiamo conto quotidianamente che la loro mente cambia», spiega Gerber: «È un dato di fatto, la sfida è capire che cosa significhi».
È nato così un progetto che analizza i cambiamenti nel corso della terapia, una sorta di riassetto dell’attività cerebrale che l’analista americano, utilizzando un termine preso in prestito dalla metallurgia, paragona «alla “ricottura” di molecole surriscaldate e poi riportate a uno stato più stabile del precedente». E qualche mese fa il convegno del Centro Milanese di Psicoanalisi dedicato a “L’esperienza delirante” – un problema che riguarda i pazienti più gravi, una delle sfide che affronta la psicoanalisi contemporanea – ha dato spazio al neuroscienziato Georg Northoff, che ha mostrato grazie al neuroimaging come si manifestino all’interno del cervello le allucinazioni che i pazienti psicotici vivono come se si trattasse di una realtà esterna.
C’è anche chi è andato oltre. Come Mark Solms, lo psicoanalista e neuroscienziato sudafricano che ha revisionato la traduzione inglese delle opere di Freud. Solms ha osservato, in pazienti con una lesione all’emisfero destro del cervello, un atteggiamento distaccato nei confronti della realtà, simile quello che secondo il pensiero di Freud caratterizza l’atteggiamento narcisista. Arrivando così alla conclusione che è proprio l’emisfero cerebrale destro a definire i confini tra noi stessi e il mondo, e a distorcerli in caso di lesioni. Una tesi che ha discusso di fronte alla Società psicoanalitica di New York, uno dei baluardi della psicoanalisi tradizionale. «Oggi la neuropsicoanalisi è una realtà con cui si deve dialogare, riconosciuta anche dall’International Psychoanalitical Association, l’associazione che riunisce i freudiani», spiega Falci.
Le teorie più innovative possono contare anche sul sostegno di grandi vecchi, come l’ottantaseienne Otto Kernberg, noto per i suoi studi sui pazienti con gravi disturbi della personalità – oltre che per il suo atteggiamento iconoclasta – che utilizza per le sue ricerche strumenti di neuroimaging. «La psicoanalisi è molte cose diverse: una teoria della personalità, una terapia e un metodo per investigare i fenomeni inconsci. Ma in passato è stata gravemente limitata dal fatto di aver ignorato le basi biologiche del funzionamento mentale, rinunciando a dialogare con le altre scienze», afferma Kernberg. Che in una ricerca pubblicata nel 2007 già mostrava come nei suoi pazienti si verifichino modifiche dell’attività cerebrale, coerenti con il loro comportamento: in particolare, un’intensificazione dell’attività dell’amigdala e una riduzione dell’attività di un’area della corteccia prefrontale che gioca un ruolo importante nell’inibizione.
Se l’obiettivo di Freud era dimostrare l’importanza dell’inconscio, le neuroscienze stanno confermando che gran parte dell’attività mentale si svolge sotto il livello di coscienza: «La sfida ora è quella di spiegare con gli strumenti delle neuroscienze cosa sia la coscienza», osserva Falci. E gli alfieri della neuropsicoanalisi sono convinti che lo scopritore dell’inconscio sarebbe dalla loro parte. «Freud attendeva con ansia il momento in cui le sue teorie si sarebbero potute integrare con scoperte neuroscientifiche», conclude Peterson: «Se oggi fosse vivo, lavorerebbe con noi».
Gli scritti tecnici freudiani di Claudio Nudi
Mi son dato in questo breve lavoro un compito estremamente semplice, eppure, almeno per quanto mi risulta, ancora non tentato: da un lato, riassumere in maniera agile e succinta i famosi “scritti tecnici” freudiani, distillandone ed evidenziandone i passi più salienti e le affermazioni più note ad uso del candidato psicoterapeuta, ma anche di chi desideri più semplicemente farsi un’ idea del metodo freudiano, del suo procedere e della sua intrinseca ragionevolezza; dall’ altro, per così dire, “ spiare” un Freud quotidiano, in movimento, a partire non dalle memorie di qualche suo paziente bensì passando attraverso le sue stesse osservazioni e prescrizioni. Quella degli “Scritti tecnici” freudiani è una lettura piacevolissima e tenera, che benevolmente impongo, ovviamente nella stesura originale, a tutti i miei allievi fin dal primo anno, esortandoli a tenerla sul comodino almeno per tutto l’ arco del percorso formativo, ed avvertendoli anzi che in essa si ritrova, ad ogni lettura, una profonda saggezza pratica, ancor oggi non del tutto spremuta, e certamente da alcuni ancora assai poco capita. Ogni tanto, i più profondi e capaci tra loro mi confermano che avevo ragione. Pagine e capitoli qui di seguito indicati si riferiscono all’ edizione estesa di Boringhieri, ma la stessa Casa Editrice pubblica in editio minor la “Tecnica della Psicoanalisi” nella collana “Biblioteca”.
Psicoterapia (1904) – Opere, vol. 4, pp. 429 ss.
Si tratta di una conferenza a suo tempo tenuta al Collegio Medico Viennese. Freud utilizza qui la celebre metafora leonardesca del “per via di porre e per via di levare”, distanziandosi in tal modo definitivamente dal metodo ipnotico. Avverte poi che la terapia psicoanalitica è tutt’ altro che ideale panacea, e che trova giustificato ricorrere in prima istanza ad altri trattamenti più brevi e semplici (434). Pone poi i famosi “criteri di analizzabilità”: a) Il grado di istruzione e di educabilità del paziente, dove curiosamente distingue tra nevrotici e “buoni a nulla” ; b) le patologie all’ epoca aggredibili e non dallo strumento analitico, pur ipotizzandone un ampliamento delle indicazioni ; c) il tema dell’ età del paziente; d) l’ urgenza del risultato come controindicazione precisa all’ applicazione del metodo. Si intrattiene poi, rassicurando in merito i colleghi, sui possibili danni al paziente derivanti dalla presa di coscienza (436), e definisce il trattamento come una “post – educazione per il superamento delle proprie resistenze interiori” (438). Conclude infine precisando come il problema centrale delle nevrosi non sia affatto la “privazione sessuale”, quanto piuttosto una “incapacità di amare” che deriva dal conflitto e dalla rimozione dell’ idea patogena.
Psicoanalisi “Selvaggia” (1910) – Opere, vol. 6, pp.325 ss.
Una donna separata riceve da un giovane medico un’ interpretazione grossolana e distorta di certe sue inquietitudini, e l’ espresso consiglio di trovare una via qualsivoglia di soddisfacimento alle sue urgenze sessuali. In tal modo, osserva Freud, la paziente viene a trovarsi nel paradosso di uscire dal suo problema facendo esattamente ciò che più teme di fare: e si trova stritolata dal conflitto tra desiderio e rimozione di questo. Freud trova pertanto che il collega abbia sbagliato su diversi piani: ha commesso un grave errore scientifico, poichè in ambito psicoanalitico la sessualità non si restringe ad un semplice agire, ma è piuttosto una psico – sessualità, il cui vero centro è l’ esistenza o meno di un conflitto contro cui ben poco può l’ azione concreta, dato e non concesso che si sia in grado di esplicarla. Il consiglio è poi fallace anche dal punto di vista pratico, giacchè se la persona non recasse dentro di sè tante resistenze non avrebbe alcun bisogno di aiuto esterno per risolvere il suo problema. Di seguito, Freud precisa la differenza che vede intercorrere tra “nevrosi attuali” – nevrastenia e nevrosi d’ angoscia, che a suo modo di vedere dipendono da una frustrazione o da una privazione reale e presente, cui si addice una prescrizione di cambiamento, e l’ isteria d’ angoscia, dall’ etiologia remota e pertanto analiticamente trattabile. Insiste poi sul tema delle resistenze, radice di quel “non sapere” che in realtà è un “non voler sapere” e che dà ragione dell’ esistenza stessa della psicoanalisi, e nello scioglimento delle quali sta l’ essenza del trattamento: il collega ha errato dunque anche su questo piano, ritenendo che basti “essere a conoscenza” per avere ragione dei meccanismi inconsci. Al contempo, il suo intervento intempestivo ha procurato anche un peggioramento della paziente, innalzandone inutilmente il livello d’ ansia. Ne conseguono alcune raccomandazioni : a) interpretare solo quando la verità è quasi a fior di coscienza; e, b) solo quando il transfert sia divenuto ben saldo (330). Concludendo, Freud sottolinea che solo lui ed i suoi seguaci sanno esattamente cosa sia e come si pratichi la psicoanalisi, e che gli improvvisatori, anche se talvolta riescono nei loro intenti terapeutici, danneggiano il movimento psicoanalitico, costringendo gli sfortunati pazienti a guarigioni “senza metodo e senza gratitudine.”
Tecnica della Psicoanalisi. Il lavoro si compone di tre articoli scritti nel 1911 e nel 1912 e successivamente riuniti in un corpo unico: l’ impiego dell’ interpretazione dei sogni in psicoanalisi (1911), Dinamica della Traslazione (1912) e Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico (1912).
a) L’ impiego dell’ interpretazione dei sogni in psicoanalisi (1911) Opere, vol. 6, pp. 517 ss. Il tema trattato non riguarda il come interpretare, ma l’ uso che si fa di tale interpretazione nel corso del trattamento. L’ articolo è ancor oggi molto interessante: il sogno non va compreso capillarmente, ed il trattamento non deve mai perdere di vista l’ attualità della situazione del paziente (518): “E’ della massima importanza per il trattamento conoscere in ogni momento la superficie psichica del malato, essere orientati sul tipo di complessi e di resistenze che si attivano in lui di volta in volta, e su quale reazione cosciente rispetto ad essi egli orienterà il suo comportamento. Questa meta terapeutica non deve essere mai sacrificata a favore dell’ interesse per l’ interpretazione dei sogni”. Nel complesso, ci si atterrà sempre alla regola di trattare ciò che spontaneamente verrà alla mente del paziente. Nè si dovrà dargli l’ impressione che il tema del sogno o un dato sogno siano essenziali, poichè infallibilmente la resistenza si indirizzerebbe verso quel punto. Poichè spesso il sogno riassume in sè tutto il materiale patogeno, in linea di principio si dovrà rinunciare all’ idea di un interpretare compiuto e perfetto: “l’ interpretazione completa di un sogno coincide con il compimento di tutta l’ analisi ” (519) e pertanto, esattamente come per i sintomi, o per la stessa diagnosi, ricomporre tutto all’ unità non è possibile se non retrospettivamente. Si lasci dunque senza timori nè rimpianti il vecchio per il nuovo, soprattutto tenendo presente che i temi onirici si ripetono e che dunque nulla andrà perduto, e ci si abbandoni interamente ad un orientamento che potrà apparirci “casuale” ma che in realtà risponde alle leggi della “associazione libera”, dove sono le costellazioni affettive a guidare le connessioni. L’ uso del materiale onirico è pertanto sottoposto alle necessità generali del trattamento; ed in questa direttiva una penetrante abilità interpretativa è addirittura controproducente, perchè trasforma il procedimento da elaborativo in suggestivo: …. “E’ il paziente che deve sapere, non il medico ” (522). Quasi tutti i sogni costituiscono un precorrimento dell’ analisi, sicchè – detrattovi quanto vi è di già noto e comprensibile – risulta da essi un accenno più o meno perspicuo ad un materiale ancora celato (ivi).
b) Dinamica della Traslazione (1912) Opere, vol. 6, pp. 523 ss. Il concetto di “Traslazione” ricapitola le modalità di avvicinamento all’ oggetto di amore – o di odio – che regolarmente si ripresentano nel rapporto con il terapeuta. Una parte di tale clichè è cosciente, un’ altra inconscia. Tale traslazione, che appare violenta in gran parte dei trattamenti, costituisce anche l’ occasione di più forte resistenza al cambiamento, tanto da indurre Freud ad affermare che, sul piano fenomenico, ogni qualvolta la catena associativa si arresta, ciò è indubitabilmente legato ad un affetto legato alla persona del terapeuta ; e che, interpretando questo arresto, la difficoltà si scioglie o quanto meno si trasforma in silenzio cosciente. E’ in questo scritto che Freud affronta il tema del transfert come motore dell’ analisi ma anche come massima fonte di resistenza (525) ; il transfert si presenta alla coscienza per bloccare il prosieguo dell’ associazione ogniqualvolta l’ indagine analitica si avvicina al “complesso patogeno” generando troppa ansia. In altri termini, si può dire che la frustrazione del soddisfacimento è l’ occasione scatenante del refluire della libido nel complesso inconscio, che viene così nuovamente costellato. A questo punto, cioè quando il flusso associativo si blocca, e solo allora, il transfert dovrebbe essere interpretato per rimuovere l’ ostacolo; ne deriva, per definizione, che “tutti i conflitti vengono interpretati nell’ ambito della traslazione ” (528). In realtà, precisa poi, la traslazione che immobilizza il trattamento è sempre di coloritura ostile, ovvero riguarda impulsi erotici repressi, giacchè la parte positiva è invece di aiuto al trattamento. “Riconducendo tali ‘ inconfessabili ‘ sentimenti alle immagini infantili, il clinico non fa che deflettere altrove emozioni immobilizzanti, conservando su di sè quelle positive che alimentano il trattamento”: si tratta qui di una sorta di “suggestione”, dice Freud, e l’ affermazione è curiosa, perchè in qualche modo sembra contraddire la teoria che l’ ha generata (529). Freud riprende dunque in questa occasione il tema bleueriano dell’ambivalenza, che nel paziente nevrotico appare particolarmente violenta, e pertanto rigidamente separata nei suoi aspetti di amore ed odio, bene e male, buono e cattivo, libertà e regola, intelletto e vita pulsionale. Al clinico sta il destreggiarsi allo scopo di riuscire a ricomporre questa perduta interezza.
c) Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico (1912). Opere, vol. 6 pp. 532 ss. Freud si intrattiene qui in una serie di “consigli pratici” a chi voglia correttamente praticare l’ analisi. Parte dal tema del ricordare il materiale proposto dai pazienti, e sulle modalità di tale ricordare, che consiste più in una “attenzione fluttuante” più che non in una operazione attiva che implica la selezione dei ricordi attraverso le aspettative del terapeuta : “Si stia ad ascoltare e non ci si preoccupi di tenere a mente alcunchè ” (533). Nello stesso modo Freud raccomanda di non elaborare, ricomporre o prefigurare un caso: e giunge persino a sconsigliare di farne periodiche rilevazioni (535). Ne affida invece totalmente il decorso alla totale “mancanza di intenzione”, al funzionamento semiautomatico di una mente ’sgombra e senza preconcetti”. Paragona qui il lavoro dell’ analista a quello del chirurgo che si propone esclusivamente e freddamente di operare nel modo più corretto possibile (536). L’ analista è il “ripetitore” che ripercorre le connessioni tra significati a partire dai derivati inconsci che gli vengono comunicati, ed il suo stesso inconscio è lo strumento che gli permette di interpretare e completare tali connessioni. E’ per questo motivo che egli dovrebbe essere per quanto possibile “pulito”, capace cioè di non lasciar trafilare nel discorso dell’ altro i suoi problemi e le sue resistenze; e per tal motivo è lecito pretendere la sua personale “purificazione” analitica (537). Il clinico sarà per i suoi pazienti uno “specchio”, e mostrerà loro solo ciò che gli viene mostrato (539) : peraltro, sarà “opaco”, per evitare di offrire soddisfacimenti sostitutivi al puro lavoro dell’ indagine analitica. Rinuncerà pertanto alla suggestione, nonchè ad ogni tipo di attività educativa. Qui v’è un’ implicita, forte critica alla scuola di Zurigo, che aveva già maturato posizioni alternative a quelle di Freud, ad un anno dallo storico distacco del 1913. La sua posizione in questo senso è molto chiara: “in coloro che hanno capacità di sublimazione, questo processo si compie da sè non appena le loro inibizioni siano state superate attraverso l’ analisi” (540). A che vale dirigere il paziente, se solo attraverso il continuo e paziente esercizio della regola delle associazioni libere si ottiene il risultato voluto? Nel metodo non c’è spazio per l’ intellettualizzazione, nè per il paziente nè tantomeno per il clinico. Come si vede, tutto il saggio ruota intorno al tema della non – razionalizzazione e sulla fiducia nell’ automatismo “ragionevole” dei processi inconsci, tanto sul versante dell’ analizzando quanto e soprattutto su quello del suo interlocutore.
Nuovi consigli sulla tecnica della Psicoanalisi (1914) Anche “Nuovi consigli”, come il saggio precedente, si divide in tre parti scritte in momenti diversi e successivamente riunite insieme: Inizio del trattamento del 1913, Ricordare, ripetere e rielaborare del 1914 e Osservazioni sull’ amore di traslazione, ancora del 1914. La prima delle tre parti, anch’essa riunita successivamente, si divide a sua volta in tre sezioni: “Inizio del trattamento”, “Problemi dell’ inizio del trattamento” e “Significato del ‘sapere’ e meccanismo della guarigione”.
a.1) Inizio del trattamento (1913) Opere, vol. 7 pp. 333 ss. Freud paragona il trattamento ad una partita a scacchi, di cui sui libri è possibile studiare solo l’ apertura: il resto, dice, è esperienza. Ciò non toglie che possano comunque venir dati dei “consigli”, e su questa premessa descrive alcuni aspetti del suo personale know – how. Introduce il tema parlando della sua abitudine di prendere il paziente “in prova” per alcune settimane, per assicurarsi per quanto possibile che esso risponda ai requisiti necessari, e per diminuire i rischi di slatentizzare una eventuale psicosi (334). Affronta poi il tema di una pregressa conoscenza con il paziente, (rapporti sociali, conoscenza tra le famiglie) avvertendo che il trattamento è egualmente possibile sebbene alquanto più complesso, e che comunque esso inciderà fatalmente in maniera negativa su tali rapporti. Generalizzando, spiega poi come l’ atteggiamento cosciente iniziale del soggetto non sia affatto determinante sull’ effetto successivo del trattamento, trattandosi di una normale resistenza che del resto troviamo anche in chi sia già analizzato, e persino in chi eserciti l’analisi sugli altri (336). Seguono indicazioni sul tempo e sul denaro: l’ora analitica va “noleggiata”, senza di che le resistenze dell’inconscio troverebbero una sin troppo facile via di scarica. “Ci si fa una convinzione precisa sull’importanza dei fattori psicogenetici nella vita quotidiana degli uomini, sulla frequenza delle finte malattie e sulla non – esistenza del caso, solo dopo aver esercitato per anni la psicoanalisi applicando rigorosamente il principio del ‘noleggio dell’ora”. Freud pensa il suo trattamento come alla somministrazione di un farmaco: sei giorni a settimana, tre nei casi lievi o nelle fasi più avanzate (337); e, come preciserà più avanti, con tale andamento il processo può durare “mezzi anni, o anni interi” (339): tenta, comunque, di delimitarlo nei termini di una procedura il più radicale e breve possibile. Da tale petizione di principio discendono diversi temi: le limitazioni di tempo imposte dal paziente, le sue domande circa la durata del trattamento, le interruzioni premature nonchè i diversi tentativi di selezionare argomenti e problemi all’ interno di un processo che non può essere se non globale. Al di là del “come fare” freudiano, per il quale comunque e come sempre rimandiamo al testo originale (337 ss.), il tema sottostante continua ad essere quello delle resistenze: sono qui configurate le più comuni “rappresentazioni sociali” della figura dello psicoanalista e del suo metodo, che vengono qui debellate, per così dire, a colpi di buonsenso (340). La prognosi – avverte Freud – è migliore per chi riesca ad abbandonarsi completamente al trattamento; ma è ben consapevole che “…è lecito attendersi condizioni così favorevoli soltanto in pochi casi” (341). La posizione freudiana in questo saggio è quella di una asciutta schiettezza, anzitutto sui temi che ancorano la relazione al principio di realtà, quali ad esempio l’ onorario, argomento così ricco di implicazioni inconsce da cui discende l’ improbabilità anzitutto teorica di un trattamento gratuito. Seguono considerazioni circa il costo del trattamento, il problema delll’ indigenza materiale obiettiva di alcuni, ed il beneficio secondario della malattia (342), che si concludono con il noto aforisma ” …la salute e la capacità di fare, da un lato, ed un moderato dispendio di danaro, dall’ altro, sono entità tra loro assolutamente inconfrontabili”. Questa prima parte del saggio si conclude con alcune considerazioni sull’ uso del lettino.
a.2) Problemi dell’ inizio del trattamento. In questo passo famoso Freud chiarisce che è necessario ” …lasciar parlare il paziente, e rimettere al suo arbitrio la scelta del punto di partenza “, e che questo è l’ unico modo giusto e legittimo di iniziare il trattamento. Espone qui la regola fondamentale delle tecnica psicoanalitica (344), ed alcune modalità già all’ epoca standardizzate con cui il paziente è solito opporvisi (345): preparare fuori dalla seduta il materiale da trattare, parlarne con altre persone (346), chiedere che gli vengano fatte domande (347), crearsi riserve coscienti contrarie alla regola della libera associazione, comunicare cose significative “ai margini” della seduta (348). Freud è anche solito proteggere il paziente da influssi esterni ostili alla cura (346), per cui consiglia espressamente di mettere al corrente della cosa il minor numero possibile di persone. Eguale attenzione pone anche alle variabili interne: se il paziente ha bisogno di un trattamento medico, è meglio che sia persona diversa dal suo psicoanalista a somministrarglielo per evitare inestricabii complicazioni transferali (346). Nello stesso saggio si pone anche il problema delle prime comunicazioni da parte del clinico: riprendendo il tema affrontato in “Psicoanalisi selvaggia” (vedi sopra), Freud sconsiglia fortemente qualsiasi tipo di interpretazione prematura, che ottiene il solo scopo di elevare a dismisura il livello d’ ansia scoraggiando il paziente dal proseguire il trattamento. “…La prima meta ( … ) rimane quella di legare il paziente alla cura e alla persona del medico” (348). Occorre ascoltare l’ altro in maniera – come diremmo oggi – “empatica”, limitandosi a sgombrare il campo dalle resistenze iniziali, con il che il clinico verrà naturalmente collocato tre le immagini delle persone dalle quali il paziente è abituato a ricevere del bene. Ci si guarderà conseguentemente dall’ assumere un tipo di atteggiamento che non sia scrupolosamente “neutrale”. L’ interpretazione verrà data, a transfert sicuramente instaurato, solo un attimo prima che il paziente vi arrivi da solo. (352).
a.3) Significato del “sapere” e meccanismo della guarigione. “Sapere” in senso psicoanalitico assume un senso particolare, e ciò per via dell’ esistenza di una doppia logica, l’ una cosciente e l’ altra inconscia. Il paziente coniuga in modo del tutto particolare un “sapere” con un “non – sapere”, ma tale conoscenza non ha completezza di significato, perchè si fonda su una cesura tra informazione ed emozione. (351). L’ interpretazione, dice Freud, non elimina il sintomo, anzi, in un primo momento sembra aggravarlo; ma a seguito di questa non tarderà a svilupparsi un processo ideativo che giungerà sino al ricordo rimosso per inserirlo nella corrente della coscienza. Freud conclude poi il saggio sottolineando che ” il primo motore ” della terapia è la sofferenza, ma la spinta che ne deriva non è sufficiente a debellare le resistenze, anche perchè non conosce la via per arrivare ad un cambiamento. L’ importo energetico necessario ha origine dalla traslazione, di qualunque coloritura essa sia, mentre il percorso da seguire è quello fornito dalla teoria, incarnata dalla persona del clinico. Altri “motori”, dice Freud, possono essere attivati, come ad esempio l’ interesse intellettuale; ma si tratta di ben poca cosa rispetto alla potenza delle resistenze. “Il trattamento merita la denominazione di psicoanalisi solo quando l’ intensità della traslazione è impiegata per vincere le resistenze. Solo allora diventa impossibile continuare a star male, anche quando la traslazione sarà di nuovo sciolta, così com’ è suo destino” (352).
b) Ricordare, ripetere e rielaborare (1914) Opere, vol. 7, pp. 353 ss. Dopo un breve excursus storico, Freud puntualizza qui il metodo allo stato della ricerca nel 1914, definendolo: “…l’ attuale rigoroso procedimento tecnico per cui il medico rinuncia alla rilevazione di ogni singolo momento o problema, e si accontenta di studiare gli elementi superficiali che si presentano di volta in volta alla psiche del paziente, utilizzando la tecnica interpretativa essenzialmente per riconoscere le resistenze che a proposito di questi elementi si verificano, e per renderle accessibili alla coscienza del malato” (353). Ciò conduce automaticamente al “… completamento delle lacune della memoria, e, da un punto di vista dinamico, al superamento delle resistenze dovute alla rimozione” che crea un vero e proprio sbarramento ricorrendo massicciamente a “ricordi di copertura” (354). Già all’ epoca, Freud si era posto anche il problema di esperienze talmente precoci da non consentire alcun tipo di ricordo, e delle quali si può prendere coscienza solo attraverso il sogno, o in base a “… motivi inoppugnabili derivanti dalla struttura stessa della nevrosi” (355): ne ridiscuterà nel caso dell’ “Uomo dei lupi”, e molto più tardi in “Costruzioni nell’ analisi”. E’ acquisito comunque il fatto che il ricordo rimosso venga continuamente riproposto sotto forma di agito inconsapevole e “dato per scontato” alla coscienza, dando luogo ad una continua “coazione a ripetere” (356) che non può non riproporsi sia nella vita che all’ interno del transfert. Questo è propriamente il “ripetere” cui fa riferimento Freud nel titolo, e che si ripresenta ogniqualvolta il transfert si colora di negatività o di ostilità oltre un certo limite: una sorta di sistema protettivo, automatico, tarato in funzione del livello d’ ansia tollerabile, che scarica il sovrappiù energetico sotto forma di azione fungendo da barriera contro la presa di coscienza, che invece richiederebbe una “sospensione dell’ azione” che lasci il posto all’ elaborazione. Da tutte queste considerazioni ci si rende conto che la malattia nevrotica è “una forza che agisce nel presente, ed i cui elementi vanno tirati dentro il campo analitico uno per uno per ricondurli alla loro antica origine” (357). Ciò provoca fatalmente peggioramenti temporanei, che a volte sconcertano il paziente; tuttavia, dice Freud, non c’è scelta, egli deve riuscire ad oggettivare la sofferenza, a riconoscerla, e per fare ciò bisogna avere coraggio, arrivando a considerare la propria nevrosi come un degno avversario contro cui battersi e spuntarla (358). Nel frattempo, però, con l’ emergere degli strati più profondi del rimosso, il rischio degli agiti si fa più sensibile. Per arginare questa eventualità, Freud usava impegnare il paziente a non prendere decisioni vitali nel corso della sua analisi (359); lo lasciava invece libero di incorrere in errori “minori” ricordando che, in definitiva, si apprende anche attraverso l’ esperienza. Il concetto freudiano è che la traslazione è l’ unica palestra legittimata a raccogliere ed esprimere tutti gli elementi della malattia, cosicchè la nevrosi venga a circoscriversi in una vera e propria “nevrosi di traslazione”, provincia intermedia tra la malattia e la vita (360), dove la fantasia patogena può essere scoperta e successivamente elaborata. Il tempo dell’ elaborazione è stabilito in linea di principio dalla psiche del soggetto, ed il medico “… non ha altro da fare che attendere e lasciare che si svolga un decorso naturale che non può essere evitato, nè sempre accelerato” (361).
c) Osservazioni sull’ amore di traslazione (1914) Opere, vol. 7, pp. 362 ss.
Freud affronta qui il tema della paziente che dichiara di essersi innamorata del suo analista, e lo definisce un “destino inevitabile”, conseguenza della situazione analitica (364), ma destinato a riproporsi in ogni altra condizione, con la sola differenza di non essere analizzabile. Così come viene descritto, il fenomeno appare una sorta di curioso, imprevedibile e violento viraggio: la paziente più arrendevole non vuole più “capire”, perde ogni interesse al trattamento, parla d’ amore, abbandona i sintomi e talora si dichiara “guarita” (365). Ciò accade, osserva Freud, proprio quando essa stava per ricordare o ammettere qualcosa di particolarmente penoso e fortemente rimosso, ed ha diverse motivazioni: sperimentare la propria seduttività, sfidare l’ autorità del terapeuta, ricavare dalla situazione tutti i vantaggi possibili (366), sottolineare la liceità della rimozione ed avere con ciò un maggior controllo della situazione. Freud raccomanda di evitare il ricorso all’ esigenza morale, ed ancor più a quelle terapeutiche; occorre invece lasciar persistere bisogni e desideri come forze propulsive al trattamento, sebbene conducendolo in astinenza, negando cioè al paziente l’ esaudimento delle sue fantasie inconsce: ed avverte pure che, in una eventuale relazione, ben presto riuscirebbero fuori tutti i problemi e le difficoltà che potevano apparire superate in ragione del transfert erotico (368). Ci si dovrà dunque guardare dal respingere la traslazione, ed egualmente dal ricambiarla: essa dovrà essere trattata come “qualcosa di irreale”, che si verifica nel trattamento e che deve essere fatto risalire alle sue cause inconsce, cioè alle sue radici infantili. In altri termini, essa va ‘compresa’ ma falsificata, in modo che la paziente, sentendosi capita sebbene ‘scoperta’, possa esporre e analizzare condizioni e fantasie cui è sottoposta la sua vita sentimentale ed erotica (369): il difficile è, ovviamente, conservare intatta la positività del transfert mentre si dà luogo alla sua graduale riduzione. Esistono poi, avverte Freud, nature passionali che non accettano surrogati al desiderio e davanti alle quali l’ introspezione deve arrendersi. In altri casi, la via del trattamento è definita: 1) Far osservare alla paziente che il suo innamoramento è perlomeno singolare, essendo in opposizione e non a favore rispetto ai desideri dell’ amato bene, come invece ci si potrebbe aspettare da qualunque donna innamorata; e che pertanto, ciò che viene dipinto come “amore” si presta assai meglio a definire una resistenza. 2) Si farà notare anche come questo sentimento ripeta antiche storie precedenti, modalità ormai stereotipate del funzionamento della persona, riportando il tutto alle sue radici infantili, cioè a quale sia stata la ” scelta oggettuale ” del paziente durante la sua infanzia, e perchè, e quali fantasie inconsce vi siano nate intorno (370). Freud si interroga poi sulla falsificabilità dei sentimenti “amorosi” nati nella traslazione. Certamente, la resistenza dà un grosso apporto nell’ intensificare l’ amore di traslazione; tuttavia, in ultima analisi, ogni amore si fonda sempre e comunque su apprendimenti infantili (371), anzi è proprio questa peculiarità a determinarne il particolare carattere coattivo. In fondo, dice Freud, non abbiamo diritto di ritenere che questo tipo di amore sia totalmente finzione, anche se non è irrilevante che nasca da una situazione del tutto particolare quale quella analitica, che sia esaltato dalla resistenza, e che sia più imprudente e cieco di altre forme di amore. Tuttavia, conclude, anche qui non v’è soluzione, ponendosi come uniche alternative il soddisfacimento delle fantasie inconsce o le necessità del trattamento. La logica freudiana è qui esplicita ed inequivocabile, ed è quella del “meglio una gallina domani”: il setting è funzione di pensiero e non di agito e tale va conservato ad ogni costo, ed il principio di piacere va decisamente oltrepassato a favore di quello di realtà, che prescrive obiettivi ed implica una certa dose di sacrificio per ottenerli. Né – conclude – tutto questo può essere evitato, giacchè è esattamente ciò che stiamo cercando (373).
L’ editio minor sugli scritti tecnici freudiani si arresta qui. A mio giudizio, tuttavia, avrebbero potuto legittimamente esservi annoverati anche altri due articoli, e precisamente “Vie della terapia psicoanalitica” del 1918 ed il notissimo “Analisi terminabile e interminabile” del 1937, che pertanto recensisco qui di seguito.
Vie della terapia psicoanalitica (1918) – Opere, vol.9, pp. 19 ss.
Il saggio è una relazione presentata al 5° Congresso di psicoanalisi tenutosi a Budapest, e ruota interamente attorno ai grandi temi del principio di astinenza e del dosaggio della frustrazione. Riprendendo quanto detto in “Psicoterapia” del 1904, Freud rammenta che il malato è tale a causa di una frustrazione, e che i suoi sintomi ne rappresentano un soddisfacimento sostitutivo (22). Per questa via, qualunque soddisfacimento, e financo lo stesso miglioramento dovuto alla cura, può rappresentare una via di fuga dal prosieguo dell’ indagine analitica; dunque, la sofferenza va tenuta viva, ed anzi ripristinata qualora venga a mancare, in quanto rappresenta la vera e prima forza attiva del cambiamento. Il paziente “ …. trova continuamente nuovi espedienti atti a disperdere e deviare l’ energia che sarebbe indispensabile per la cura”, e fa questo attraverso l’ azione, talvolta con conseguenze disastrose, come – esemplifica Freud – incastrandosi in legami infelici, o arrivando talora sino alla malattia fisica: creandosi, cioè, occasioni atte a riassumere e condensare in una situazione concreta l’ essenza del suo dramma. Attraverso un soddisfacimento apparente e frettoloso, il soggetto può nello stesso tempo “ripetere” all’ infinito il dolore del trauma originario, punirsi per i desideri aggressivi che ne derivano, trovare nel suo stato attuale un “beneficio secondario” e, soprattutto, ricavarsi delle occasioni reali ed attuali di sofferenza, svuotando in tal modo di senso quelle generate dai fantasmi della sua prima infanzia: in una parola, dare una ragione concreta e presente a ciò che invece è storico (23). Difficile dunque è il compito del medico nel discernere ciò che può essere concesso da ciò che invece aprirebbe una breccia nel trattamento: se è vero che non tutto può essere tolto – dice Freud – è pur vero che un certo grado di sofferenza e privazione, se da un lato funge da spinta propulsiva all’ analisi, dall’ altro dà “ … maggior forza per affrontare meglio la vita” (24). Per questo motivo, la prassi di alcuni di proporre al paziente mete filosofiche o sublimazioni di vario genere è controproducente, sia perché intrude nell’ individualità del soggetto, sia perché preclude la ricerca di una via personale verso la salvezza (e qui Freud si pone ancora una volta in aperta polemica con la Scuola di Zurigo). Esistono certamente – concede poi – tecniche di tipo “attivo”, come ad esempio nelle fobie, ove, come raccomandava Ferenczi, il paziente deve essere incoraggiato a fare ciò che teme perché sia possibile dar corso ad un processo ideativo che possa portare alla risoluzione del caso (26): ma anche tali procedure attive devono comunque rimanere inscritte nella logica della sostanziale astinenza. Il lavoro si conclude con alcune considerazioni circa il futuro ipotizzabile della psicoanalisi nelle strutture pubbliche, dove curiosamente Freud contraddice se stesso sul tema della gratuità del trattamento, a soli quattro anni dai “Nuovi consigli” dove concludeva in modo lapidario “non c’è nulla da fare”.
Analisi terminabile ed interminabile (1937) – Opere, vol. 11 pp. 495 ss.
Freud affronta qui il tema della durata del trattamento a partire dai vari esperimenti condotti dai suoi epigoni nel tentativo di abbreviare il cammino analitico. Il suo atteggiamento in merito è apertamente critico, e li definisce tentativi di “adeguare i tempi lenti della psiche alla concitazione della vita americana” (500) disconfermando scopertamente O. Rank e la sua teoria del “trauma della nascita” e, velatamente ed implicitamente, ancora una volta Jung. Ricorda di aver egli stesso tentato di sbloccare un’ analisi in fase di stallo con la “misura ricattatoria” di darle una scadenza, con risultati incerti, per cui il suo giudizio in merito è che “il compito viene raggiunto solo parzialmente” mentre, se la scelta del momento si rivela sbagliata, “l’errore è irreversibile” (502). Abbreviare l’ analisi è per Freud comunque uno pseudoproblema: il punto reale – afferma – è piuttosto quello di esaurire radicalmente la probabilità di malattia, e per far questo occorre “suscitare una trasformazione profonda” nella personalità del soggetto (507). Da questa affermazione derivano alcuni interrogativi interessanti: a) è davvero possibile imparare ad “imbrigliare” una pulsione liquidando definitivamente un conflitto tra Es ed Io, ovvero mettere per sempre al sicuro il paziente da analoghe situazioni futuri? E, b) in questa ottica della “guarigione la più completa possibile e definitiva”, può essere opportuno tentare di suscitare nel soggetto emozioni e conflitti che il terapeuta intuisce ma che non sono ancora presenti alla psiche del paziente? Non è un caso, ovviamente, che Freud si ponga questi interrogativi verso la fine della vita, constatando i limiti ed frutti incerti di una scienza ancora ai primordi. La partita, dice, non può che giocarsi momento per momento, poiché le pulsioni si allentano o rafforzano nei diversi momenti critici dell’esistenza (509), ed anche le circostanze esterne possono influenzarle, sicchè il fattore quantitativo è spesso determinante. Se lo scopo ultimo della terapia è quello di “sostituire alle malcerte rimozioni dispositivi di controllo affidabili ed egosintonici”, si deve prendere atto del fatto che, come del resto nello sviluppo secondo natura, sovente la trasformazione riesce solo in parte (512). Ancora più esplicito è il suo atteggiamento circa la possibilità di influenzare o modificare il conflitto quando questo non appare nel presente (513), giacchè il precetto dell’astinenza non è sufficiente ad attivarlo in maniera “virtuale”: per ottenere ciò, dice Freud, bisognerebbe indurre nel paziente ulteriori conflitti, ma “ … creandone di nuovi non si farebbe altro che rendere più lungo e difficoltoso il lavoro analitico (513). Intervenire attivamente in questa linea provocativa altererebbe poi l’ atmosfera “affettuosa” (!) del setting, invalidando il transfert positivo che invece rappresenta il “secondo motore” – il primo, come detto, è la sofferenza – del trattamento analitico. Un’ altra via, considera Freud, potrebbe essere quella, meno cruenta, di tentare di “evocare verbalmente” il conflitto, suscitando nel paziente il timore che anche in lui potrebbero prodursi, in futuro, situazioni sfavorevoli di un certo tipo: ma – e qui il suo giudizio è lapidario – “l’esito atteso non si produce”, per le stesse ragioni per le quali – ad esempio – spiegare la sessualità ai bambini non impedisce che essi continuino ad avere le loro teorie sull’ argomento, teorie che hanno costruito “… in armonia con la loro incompleta organizzazione libidica” (517). D’altro canto, avverte, il terapeuta avveduto non dovrebbe perdere mai di vista il rischio di un’ alterazione dell’ Io che può derivare da un uso massiccio dei meccanismi di difesa indotto da una prassi interventista (520). In sostanza, Freud ribadisce qui ancora una volta la validità della linea da lui sempre sostenuta, e cioè il paziente lavoro sulle difese che si presentano di volta in volta in superficie, accettandone anche i limiti, alcuni anche, dal suo punto di vista, geneticamente determinati, quali la “viscosità della libido”, o la sua eccessiva mobilità, o l’ esaurimento precoce della plasticità e dell’ “educabilità” (524). Ma sopra tutte queste difficoltà Freud colloca l’innata tendenza umana al conflitto ed alla distruttività, contro cui anche lo strumento psicoanalitico deve talvolta arrendersi (525), e che riassume nella teoria dualistica di Eros e Thanatos: “Per il momento ci inchiniamo all’ immane potenza degli ostacoli contro cui vediamo infrangersi i nostri sforzi. Già il tentativo di influenzare psicologicamente il semplice masochismo mette a dura prova le nostre forze” (526). Ma mentre riconosce il limite della sua ricerca, segnato anche dalla consapevolezza della morte imminente, Freud indica pure la via per superarlo, raccomandando a chi verrà dopo lo stesso saper attendere e la stessa misurata integrità ed onestà intellettuale che egli aveva fatto proprie, e perseguito, per tutta la vita. Ciò che si richiede al buon clinico non è un’impossibile perfezione, ma un costante sincero impegno a mettere a nudo le proprie resistenze ed a migliorare la propria competenza umana e professionale (530): invece “ … sembra … che molti analisti imparino ad usare determinati meccanismi di difesa che consentono loro di escludere dalla propria personalità, riversandole probabilmente sugli altri, le conseguenze e le prescrizioni dell’ analisi: essi restano quindi quello che sono, e riescono in tal modo a sottrarsi all’ influsso critico e correttivo dell’ analisi” (531). Per Freud, sembra che l’ unico a doversi sottoporre ad analisi “interminabile” sia proprio l’ analista (532): per gli altri, dice, “la fine dell’ analisi è una cosa che riguarda la prassi”, e il compito del trattamento è assolto quando ha creato le condizioni più favorevoli al funzionamento dell’ Io. Infine, un ultimo grande tema che Freud lascia ai suoi successori è quello del rifiuto della femminilità, un problema che tocca ambedue i sessi, e che se nell’ uomo appare giustificato in ragione dell’orrore dell’evirazione, nella donna assume un significato di rifiuto della propria stessa natura, che si manifesta nella cosiddetta “invidia del pene”, vera e propria fissazione alla fase fallica (532): “ … con frequenza sorprendente troveremo che il desiderio di mascolinità si è preservato nell’inconscio e sviluppa, dallo stato di rimozione in cui si trova, i suoi effetti perturbatori” (534). Ambedue questi atteggiamenti risultano a Freud inamovibili al trattamento, e gli appaiono come “roccia basilare” della psiche che dà ragione di determinati fallimenti, dove per alcuni uomini guarire vuol dire sottomettersi passivamente al medico, e, per alcune donne, doverne accettare la maschile odiata superiorità. Il tema è oltremodo complesso, e si presta ad interpretazioni molteplici di tipo relazionale, sociologico, biologico e via dicendo. La tecnica freudiana, all’ epoca, alza le mani di fronte a quello che definisce “il grande mistero del sesso” (535): “Ci consoleremo con la certezza di aver fornito all’ analizzato tutte le possibili sollecitazioni per riesaminare e modificare il suo atteggiamento verso di esso”.
La Scuola Romana di Psicologia Clinica/ IMAGO, abilitata alla formazione con decreto MURST (MIUR) del 9 luglio 2001 pubblicato in G.U. n. 386 del 12/ 10/ 2001, è attiva in Roma, con sede amministrativa in Viale delle Provincie, 6 (00162) al numero 06/ 44 24 80 16, e sede didattica in Via Matera, 18 (00182). Ulteriori notizie sul Web all’ indirizzo www.psychomedia.it/srpc-imago.
Antonino Ferro Una nuova anima, articolo su LA REPUBBLICA, 18 dicembre 2012
Una nuova anima, LA REPUBBLICA, 18 dicembre 2012
INTRODUZIONE: Luciana Sica intervista Antonino Ferro, Presidente neo-eletto della Società Psicoanalitica Italiana (SPI). Alle domande della giornalista Ferro dichiara di volersi indirizzare verso la “sprovincializzare” della psicoanalisi italiana, la ricerca di dialogo fra le varie anime e con i diversi saperi, in modo da prendere le distanza da tutti i dogmatismi, uscire da un isolamento antistorico e procedere nello svecchiamento della nostra scienza. La sua scelta è per il pluralismo e l’internazionalizzazione. Buon lavoro, Presidente. (Silvia Vessella)
Repubblica, MARTEDÌ 18 DICEMBRE 2012
L’istituzione analitica volta pagina con la presidenza di Nino Ferro “Basta con i dogmi: è ora di aprirsi all’esterno, di dialogare con gli altri”
“La psicoanalisi italiana non può fermarsi a Freud servono idee diverse altrimenti diventa un culto”
UNA NUOVA ANIMA
LUCIANA SICA
«L’epoca d’oro della psicoanalisi italiana è ormai alle spalle?
Ma che idea assolutamente demenziale. Quella lì era una psicoanalisi isolata, con una sua riconoscibilità esclusivamente interna, altrove non sapevano neppure che esistesse… Una ventina d’anni fa avrei voluto che il mio primo libro uscisse anche in inglese, ma fu rifiutato sempre con lo stesso argomento: bel lavoro il suo, peccato sia scritto da un italiano, non lo comprerebbe nessuno… Tanto che dissi: allora firmatelo Iron!». Iron come Ferro. Come Nino Ferro, il nuovo presidente della Società psicoanalitica italiana, sessantacinque anni, palermitano trapiantato a Pavia, autore di libri tradotti in più di dieci lingue (un suo nuovo saggio su Le viscere della mente uscirà il prossimo anno da Cortina). È un analista conosciuto ovunque: l’americano Thomas Ogden – tra le teste più brillanti della psicoanalisi mondiale – avrà anche esagerato, ma è lui a considerare Nino Ferro «il migliore teorico e clinico psicoanalitico che attualmente scrive». Il neopresidente, più incline all’understatement, sembra però determinato a far voltare pagina alla psicoanalisi di casa nostra. Con due parole chiave – “pluralismo” e “internazionalizzazione” – e la consapevolezza che potrà giocare di sponda con Stefano Bolognini, alla guida dell’International Psychoanalytical Association, primo italiano al vertice dell’istituzione fondata da Freud nel 1910.
Lei vuole “sprovincializzare” la Società psicoanalitica italiana… Non sarà un’impresa facilissima, perché si direbbe un’organizzazione chiusa, che pretende di accreditarsi da sola, un po’ compiaciuta di sé. Come pensa di renderla più aperta, più dialogante?
«Alcuni segnali di cambiamento sono importanti da subito per uscire da un isolamento antistorico che a volte ci fa ancora ragionare in termini localistici. Come presidente di tutti, garantirò che ogni modello riconosciuto sia considerato legittimo e con pari dignità. Nessun pensiero sarà minoritario, ma nessuno – in nome dell’ortodossia freudiana – potrà più permettersi di scagliare anatemi del tipo “questa non è psicoanalisi”.
Da chi vengono le scomuniche e a chi sono dirette?
«Vengono da chi ama marcare a ogni riga e a ogni frase il senso dell’appartenenza, senza sentire il bisogno di una qualche originalità. In genere gli anatemi vengono scaraventati contro gli “altri”, quelli che si preferisce non studiare ma demonizzare».
Fa almeno un esempio del cambiamento che ha in mente?
«Mettiamo la nostra Rivista di psicoanalisi, diretta da Giuseppe Civitarese. Andrà aperta a maggiori contatti e scambi internazionali, compresa la psicoanalisi americana che potremo anche criticare, ma a patto di conoscerla bene, senza i soliti arroccamenti sul già noto».
Cosa dicono o fanno di così scabroso gli analisti americani?
«Si mettono in gioco nel rapporto analitico senza escludere neppure l’“auto-rivelamento”: possono anche raccontare qualcosa di sé, seppure in un legame stretto con quanto va dicendo il paziente. La loro è un’impostazione teorica e clinica fortemente “relazionale”».
Un peccato mortale per un analista classico?
«Un tabù che forse vale la pena d’infrangere. Del resto, se oggi Freud vedesse analizzare i pazienti come nei primi decenni del Novecento avrebbe una crisi di disperazione. Non era una scienza infertile che voleva, ma una scienza capace di svilupparsi, di trasformarsi, di volare…».
Non pensa che alcuni voli possano risultare azzardati?
«Penso che ognuno ha il diritto di approfondire il suo modello in modo libero e creativo, senza eclettismi, senza fare pastrocchi, ma anche senza ignorare tutto il resto. Soprattutto nel training – nella formazione degli allievi che costituisce per serietà e impegno il nostro marchio di fabbrica – non basterà più lo studio pur fondamentale dei classici, ma dovrà esserci una forte presenza della psicoanalisi contemporanea».
Sembrerebbe del tutto ovvio. Ma forse c’è un altro problema: non le risulta che gli analisti italiani difettano nella padronanza dell’inglese?
«E questo è davvero tragico, perché così non ci si può muovere nel mondo scientifico. Lo studio dell’inglese andrà inserito obbligatoriamente negli anni della formazione dei nostri analisti: lo considero un punto centrale del mio programma».
Il suo competitor nella corsa alla presidenza, Alberto Semi, ha accusato l’establishment della vostra istituzione di accentrare ogni decisione senza favorire la partecipazione e il talento creativo dei soci… Avrà qualche ragione?
«Non è certo la creatività che manca alla psicoanalisi italiana. Il problema è che finora non abbiamo avuto a disposizione dei canali agili per farla conoscere all’estero. Bisogna che ci siano. E comunque senza più dogmatismi: se una cosa non l’ha detta Freud, può andar bene lo stesso».
Ma c’è psicoanalisi senza Freud? O meglio: c’è una continuità o una rottura tra Freud e “le” psicoanalisi contemporanee?
«Mi verrebbe da dire: c’è microbiologia senza Pasteur? Certamente sì, grazie anche a Pasteur! Il punto è che bisogna avere il coraggio di proporre nuove idee anziché celebrare le vecchie. Non guarderei ai fasti del passato, ma al brillante futuro che la psicoanalisi saprà dare a se stessa con la ricerca e l’impegno nella cura delle nuove patologie. Fermarsi a Freud significherebbe trasformare una disciplina basata sull’esperienza in un credo religioso».
Secondo Semi, si rischia di perdere di vista nientemeno che l’inconscio… Lei ne difende o no la centralità?
«Ma assolutamente sì. Non a caso, l’anno scorso, ero tra i cinque analisti a organizzare l’appuntamento internazionale a Città del Messico, e ho insistito moltissimo per quel titolo sui tre pilastri della psicoanalisi: “Sessualità, Sogni e Inconscio”… Ma mi è sembrato che al congresso Semi non ci fosse».
Che ci fosse o meno, non importa. Piuttosto qual è la sua idea dell’inconscio? E quanto conterà ancora il passato del paziente?
«Seguendo il modello di Bion, penso che l’inconscio venga formato e trasformato nella relazione analitica, nell’incontro singolare tra due menti che costituiscono una nuova entità e danno vita a scenari nuovi e imprevedibili. Certo che il passato conta, ma forse il problema riguarda quelle storie che non ci è stato dato di vivere o – come direbbe Ogden – di sognare ».
Lei ha un’aria conciliante, ma da voi i conflitti a tratti sono feroci…Non è deludente tra gente che fa il vostro mestiere?
«Gli analisti esistono soltanto nel rapporto col paziente. Nella vita sono uomini e donne come tutti gli altri, né migliori né peggiori».
Ma la Società psicoanalitica non ha proposto l’immagine di un cenacolo di anime belle?
«Anime belle, noi? Via, le cattiverie e le generosità sono assolutamente identiche in ogni ambiente professionale. Anzi, da noi forse è un poco peggio, visto che se siamo dei bravi analisti siamo tenuti a contenere tutto il giorno le angosce dei pazienti. E quindi poi magari dobbiamo anche sfogarci un po’…».
L’uomo senza inconscio. Massimo Recalcati
Massimo Recalcati
Raffaello Cortina Editore
2011
pag.350
L’autore ripensa in modo originale le più diffuse psicopatologie del disagio contemporaneo della civiltà: anoressie, bulimie, obesità, tossicomanie, depressioni, attacchi di panico, somatizzazioni. La sua tesi è che in tutte queste nuove forme del sintomo il soggetto dell’inconscio, cioè il soggetto del desiderio, non sia più il protagonista della scena. Piuttosto, al centro della nuova clinica è la difficoltà soggettiva di accedere al desiderio, è l’assenza, lo spegnimento, la morte del desiderio. Prevalgono l’apatia, l’indifferenza, il vuoto, la fatica di esistere. In questo senso la nuova clinica è una clinica dell’antiamore, una clinica che non è più centrata, come accadeva in quella classica della nevrosi, sulle vicissitudini della vita amorosa: il soggetto ipermoderno appare come un soggetto smarrito, senza centro, dominato dalla spinta compulsiva a un godimento solitario (narcisistico e cinico) che esclude lo scambio simbolico con l’Altro.