Antonino Ferro Una nuova anima, articolo su LA REPUBBLICA, 18 dicembre 2012

Una nuova anima, LA REPUBBLICA, 18 dicembre 2012

INTRODUZIONE: Luciana Sica intervista Antonino Ferro, Presidente neo-eletto della Società Psicoanalitica Italiana (SPI). Alle domande della giornalista Ferro dichiara di volersi indirizzare verso la  “sprovincializzare” della psicoanalisi italiana, la ricerca di dialogo fra le varie anime e con i diversi saperi, in modo da prendere le distanza da tutti i dogmatismi, uscire da un isolamento antistorico  e procedere nello svecchiamento della nostra scienza. La sua scelta è per il pluralismo e l’internazionalizzazione. Buon lavoro, Presidente. (Silvia Vessella)

Repubblica, MARTEDÌ 18 DICEMBRE 2012  

L’istituzione analitica volta pagina con la presidenza di Nino Ferro “Basta con i dogmi: è ora di aprirsi all’esterno, di dialogare con gli altri”

“La psicoanalisi italiana non può fermarsi a Freud servono idee diverse altrimenti diventa un culto”

UNA NUOVA ANIMA

LUCIANA SICA

«L’epoca d’oro della psicoanalisi italiana è ormai alle spalle?

Ma che idea assolutamente demenziale. Quella lì era una psicoanalisi isolata, con una sua riconoscibilità esclusivamente interna, altrove non sapevano neppure che esistesse… Una ventina d’anni fa avrei voluto che il mio primo libro uscisse anche in inglese, ma fu rifiutato sempre con lo stesso argomento: bel lavoro il suo, peccato sia scritto da un italiano, non lo comprerebbe nessuno… Tanto che dissi: allora firmatelo Iron!». Iron come Ferro. Come Nino Ferro, il nuovo presidente della Società psicoanalitica italiana, sessantacinque anni, palermitano trapiantato a Pavia, autore di libri tradotti in più di dieci lingue (un suo nuovo saggio su Le viscere della mente uscirà il prossimo anno da Cortina). È un analista conosciuto ovunque: l’americano Thomas Ogden – tra le teste più brillanti della psicoanalisi mondiale – avrà anche esagerato, ma è lui a considerare Nino Ferro «il migliore teorico e clinico psicoanalitico che attualmente scrive». Il neopresidente, più incline all’understatement, sembra però determinato a far voltare pagina alla psicoanalisi di casa nostra. Con due parole chiave – “pluralismo” e “internazionalizzazione” – e la consapevolezza che potrà giocare di sponda con Stefano Bolognini, alla guida dell’International Psychoanalytical Association, primo italiano al vertice dell’istituzione fondata da Freud nel 1910.

Lei vuole “sprovincializzare” la Società psicoanalitica italiana… Non sarà un’impresa facilissima, perché si direbbe un’organizzazione chiusa, che pretende di accreditarsi da sola, un po’ compiaciuta di sé. Come pensa di renderla più aperta, più dialogante?

«Alcuni segnali di cambiamento sono importanti da subito per uscire da un isolamento antistorico che a volte ci fa ancora ragionare in termini localistici. Come presidente di tutti, garantirò che ogni modello riconosciuto sia considerato legittimo e con pari dignità. Nessun pensiero sarà minoritario, ma nessuno – in nome dell’ortodossia freudiana – potrà più permettersi di scagliare anatemi del tipo “questa non è psicoanalisi”.

Da chi vengono le scomuniche e a chi sono dirette?

«Vengono da chi ama marcare a ogni riga e a ogni frase il senso dell’appartenenza, senza sentire il bisogno di una qualche originalità. In genere gli anatemi vengono scaraventati contro gli “altri”, quelli che si preferisce non studiare ma demonizzare».

Fa almeno un esempio del cambiamento che ha in mente?

«Mettiamo la nostra Rivista di psicoanalisi, diretta da Giuseppe Civitarese. Andrà aperta a maggiori contatti e scambi internazionali, compresa la psicoanalisi americana che potremo anche criticare, ma a patto di conoscerla bene, senza i soliti arroccamenti sul già noto».

Cosa dicono o fanno di così scabroso gli analisti americani?

«Si mettono in gioco nel rapporto analitico senza escludere neppure l’“auto-rivelamento”: possono anche raccontare qualcosa di sé, seppure in un legame stretto con quanto va dicendo il paziente. La loro è un’impostazione teorica e clinica fortemente “relazionale”».

Un peccato mortale per un analista classico?

«Un tabù che forse vale la pena d’infrangere. Del resto, se oggi Freud vedesse analizzare i pazienti come nei primi decenni del Novecento avrebbe una crisi di disperazione. Non era una scienza infertile che voleva, ma una scienza capace di svilupparsi, di trasformarsi, di volare…».

Non pensa che alcuni voli possano risultare azzardati?

«Penso che ognuno ha il diritto di approfondire il suo modello in modo libero e creativo, senza eclettismi, senza fare pastrocchi, ma anche senza ignorare tutto il resto. Soprattutto nel training – nella formazione degli allievi che costituisce per serietà e impegno il nostro marchio di fabbrica – non basterà più lo studio pur fondamentale dei classici, ma dovrà esserci una forte presenza della psicoanalisi contemporanea».

Sembrerebbe del tutto ovvio. Ma forse c’è un altro problema: non le risulta che gli analisti italiani difettano nella padronanza dell’inglese?

«E questo è davvero tragico, perché così non ci si può muovere nel mondo scientifico. Lo studio dell’inglese andrà inserito obbligatoriamente negli anni della formazione dei nostri analisti: lo considero un punto centrale del mio programma».

Il suo competitor nella corsa alla presidenza, Alberto Semi, ha accusato l’establishment della vostra istituzione di accentrare ogni decisione senza favorire la partecipazione e il talento creativo dei soci… Avrà qualche ragione?

«Non è certo la creatività che manca alla psicoanalisi italiana. Il problema è che finora non abbiamo avuto a disposizione dei canali agili per farla conoscere all’estero. Bisogna che ci siano. E comunque senza più dogmatismi: se una cosa non l’ha detta Freud, può andar bene lo stesso».

Ma c’è psicoanalisi senza Freud? O meglio: c’è una continuità o una rottura tra Freud e “le” psicoanalisi contemporanee?

«Mi verrebbe da dire: c’è microbiologia senza Pasteur? Certamente sì, grazie anche a Pasteur! Il punto è che bisogna avere il coraggio di proporre nuove idee anziché celebrare le vecchie. Non guarderei ai fasti del passato, ma al brillante futuro che la psicoanalisi saprà dare a se stessa con la ricerca e l’impegno nella cura delle nuove patologie. Fermarsi a Freud significherebbe trasformare una disciplina basata sull’esperienza in un credo religioso».

Secondo Semi, si rischia di perdere di vista nientemeno che l’inconscio… Lei ne difende o no la centralità?

«Ma assolutamente sì. Non a caso, l’anno scorso, ero tra i cinque analisti a organizzare l’appuntamento internazionale a Città del Messico, e ho insistito moltissimo per quel titolo sui tre pilastri della psicoanalisi: “Sessualità, Sogni e Inconscio”… Ma mi è sembrato che al congresso Semi non ci fosse».

Che ci fosse o meno, non importa. Piuttosto qual è la sua idea dell’inconscio? E quanto conterà ancora il passato del paziente?

«Seguendo il modello di Bion, penso che l’inconscio venga formato e trasformato nella relazione analitica, nell’incontro singolare tra due menti che costituiscono una nuova entità e danno vita a scenari nuovi e imprevedibili. Certo che il passato conta, ma forse il problema riguarda quelle storie che non ci è stato dato di vivere o – come direbbe Ogden – di sognare ».

Lei ha un’aria conciliante, ma da voi i conflitti a tratti sono feroci…Non è deludente tra gente che fa il vostro mestiere?

«Gli analisti esistono soltanto nel rapporto col paziente. Nella vita sono uomini e donne come tutti gli altri, né migliori né peggiori».

Ma la Società psicoanalitica non ha proposto l’immagine di un cenacolo di anime belle?

«Anime belle, noi? Via, le cattiverie e le generosità sono assolutamente identiche in ogni ambiente professionale. Anzi, da noi forse è un poco peggio, visto che se siamo dei bravi analisti siamo tenuti a contenere tutto il giorno le angosce dei pazienti. E quindi poi magari dobbiamo anche sfogarci un po’…».

L’inconscio nell’uomo supermoderno

Articolo scritto dal dott. Stefano Mengarelli

 

Sigmund Freud in un noto passaggio di “Psicologia delle masse e analisi dell’Io” afferma : “ Nella vita psichica del singolo, l’altro è regolarmente presente come modello, come soccorritore, come nemico e pertanto … la psicologia individuale è al tempo stesso, fin dall’inizio psicologia sociale”[1].

La società riveste quindi un ruolo fondamentale per la psiche dell’uomo, incide in modo decisivo sulle sue abitudini, sui modi di vivere e ne condiziona le sue psicopatologie.

Tutto si trasforma ed è in continuo cambiamento, e l’inconscio? Come ricorda Recalcati, l’inconscio “non è un’essenza sovrastorica immune da trasformazioni sociali”[2], quindi appare lecito chiedersi a quali trasformazioni andrà incontro l’inconscio dell’uomo di oggi e di domani.

L’imperativo capitalista al consumo smisurato, all’edonismo senza freni, al godimento illimitato nel consumo dell’oggetto, fanno pensare ad una società che sta perdendo di vista il senso del limite. È un disegno consumistico che tende all’illimitato, all’assenza di frustrazioni e a rispettare le leggi di un unico padrone: il piacere.

Ma si può veramente parlare di piacere in assenza di un limite? Un limite traccia anche un confine tra ciò che si può e quello che non si può, tra ciò che piace e quello che non piace,e a questo punto ci possiamo chiedere:  in una società dove tutto è piacere, godimento immediato e smisurato, che fine ha fatto il dispiacere?  Dove lo abbiamo nascosto?  E soprattutto, se tutto tende al piacere, che fine fa il desiderio? Avremo ancora bisogno di desiderare qualcosa? L’inconscio come sappiamo è il “luogo” del desiderio e alla luce delle domande che ci siamo posti non ne rimane che una : che fine farà l’inconscio?

Queste sono domande aperte a cui solo il tempo potrà rispondere, per ora possiamo solo osservare come si evolvono certi fenomeni e certe abitudini dell’uomo inserito in questo mondo ipertecnologico e vedere a quali trasformazioni andrà incontro.

Ad esempio, ricordo che da ragazzo c’erano le musicassette di questo o di quel cantante o gruppo musicale e generalmente le canzoni presenti variavano da 10 a 14 al massimo, divise in 2 parti uguali generando gli storici lato Alato B. Ovviamente non tutte le canzoni erano di nostro gradimento e quando arrivava quella che non ci piaceva era automatico premere il dito sul tasto Avanti del nostro Walkman… la facevamo scorrere velocemente per poi passare alla più gradita canzone successiva e così via per le altre; in quelle musicassette, c’erano canzoni “belle” e canzoni “brutte” e tutte coesistevano nello stesso spazio, nella stessa radio; era quindi una sorta di allenamento continuo alla “tolleranza”, al fatto che non tutto fosse piacevole.

Oggi è diverso, ci sono gli Ipod, gli mp3/4/5/infinito, dove all’interno di essi abbiamo la possibilità di inserire solo ciò che vogliamo, tutte le canzoni che più ci piacciono ed organizzarle in playlist per ogni evenienza : il gruppo di canzoni da ascoltare per le passeggiate, il gruppo di canzoni stimolanti per le attività di fitness, ecc. Nel nostro Ipod non abbiamo più canzoni che non ci piacciono, e anche se così fosse … basta un click, per eliminarle per sempre. Non c’è “tolleranza”, non c’è “sopportazione”. E poi non ci sono più 10/14 canzoni, ma 1000, 5000, infinite canzoni, ed  è come dire : “io voglio solo quello che mi piace, e lo voglio ora, immediatamente, ma non un po’ … io lo voglio tutto!”.

Una profonda trasformazione, o meglio una vera e propria rivoluzione culturale e sociale la possiamo senza dubbio trovare in Internet. Il riferimento di ogni sapere  dell’uomo supermoderno è la rete digitale; tutti abbiamo ed avremo a disposizione Internet e ce lo porteremo appresso come un’appendice corporea, come un prolungamento del nostro stesso corpo.

Ognuno può cliccare e sapere, e ormai i motori di ricerca permettono in tempo reale di avere la risposta a qualsiasi domanda o a qualsiasi dubbio e di farlo nell’immediatezza.

Le biblioteche sono vecchi ricordi, troppo tempo perso e troppa fatica; per aspettare un libro ordinato può passare anche qualche ora o giorno addirittura e poi il regolamento delle biblioteche prevede che non si possano consultare più di un certo numero di libri alla volta.

Intenet ha risolto ogni problema, perché lì c’è tutto, non pochi libri ma tutti i libri, non qualche ora o giorno di attesa ma qualche secondo al massimo. All’uomo supermoderno è vietato attendere, ed ogni bisogno deve  essere soddisfatto nell’immediato.

Sembrerebbe proprio che nell’era di Internet non serva molto l’utilizzo del cervello, il sapere è digitale e ciò significa letteralmente che dipenderà dalle dita e dai polpastrelli che cliccano.

Tutto è a misura di click. Con una cliccata si soddisfa ogni desiderio, tutto può essere aperto o chiuso per sempre; è come una chiave magica che apre tutte le porte con il vantaggio che ce l’abbiamo in dotazione dalla nascita: il nostro indice, a cui , grazie ai supermoderni touch screen è stata tolta anche la fatica di fare pressione per digitare.

Stesso discorso per i cellulari, protagonisti indiscussi della nuova era comunicativa dell’uomo supermoderno; su un comune smartphone c’è tutto, tutta la musica che si vuole sentire, tutti i film che si vogliono vedere e tutti i giochi che ci aiutano a sopportare la noia di una qualsiasi attesa.

È come un immenso seno pieno di latte, sempre lì pronto a soddisfare ogni desiderio del poppante supermoderno, di una madre infinitamente buona, una madre che in bontà e generosità scavalca di gran lunga la mamma sufficientemente buona descritta dallo psicoanalista inglese D.Winnicott[3] .

In questa madre dell’uomo supermoderno non c’è traccia di frustrazione, tutto è permesso, tutto è dovuto, e il godimento assume la forma di un imperativo sociale che rifiuta ogni tipo di castrazione: bisogna godere! Il piacere diventa così la Legge dei nostri tempi.

Il personaggio che contiene in se le radici di queste riflessioni e a cui possiamo far riferimento per capire meglio in che modo sta cambiando la nostra società è sicuramente Silvio Berlusconi.

Berlusconi fa epoca non tanto per l’azione di governo che ha caratterizzato la sua missione politica, ma per come la sua persona abbia definitivamente scolpito nelle tavole della nostra “Legge” morale e sociale, il “dictat” del godimento ad ogni costo. Non solo i suoi cosiddetti comportamenti privati, ma in modo assai più emblematico, la sua stessa azione legislativa ( le leggi ad personam), svelano come il massimo rappresentante della vita dello Stato “miri alla realizzazione del proprio godimento situato non come capriccio estemporaneo, ma come di diritto inscritto nella funzione istituzionale che egli ricopre”[4].

Non c’è vergogna, senso di colpa, senso del limite, perché la Legge supermoderna coincide proprio con il piacere, con il godimento, in nome del quale tutto è permesso.

Freud ha parlato di conflitto tra istinti e Super-Io, tra desiderio e dovere, una lotta che finisce con il compromesso dell’Io e la nascita del sintomo; nell’Io dell’uomo freudiano non tutto era permesso, e il Super-Io nato dall’Edipo esigeva la rinuncia pulsionale come condizione di accesso alla Civiltà.

Ma nell’uomo supermoderno stiamo assistendo ad una profonda trasformazione, il Super-Io ha perso la sua autorevolezza e l’Io sta cedendo alle richieste di soddisfazione pulsionale dell’ES; il sacrificio pulsionale viene negato nel nome di una falsa liberazione della pulsione che si svincola da ogni forma di sublimazione promettendo un godimento immediato, senza più limiti.

La facilitazione dell’accesso al godimento, la via libera concessa alla scarica pulsionale, una sessualità agita compulsivamente, scorporata dall’amore, non risulta affatto liberatorio ma altamente repressivo poiché spegne il movimento del desiderio.

In un mondo totalmente pulsionale, l’uomo supermoderno appare quindi un uomo che non ha più necessità di desiderare, e il conflitto non è più tra la rimozione e il ritorno del desiderio inconscio proibito, inaccettabile, della visione della nevrosi freudiana; al contrario, si sta passando lentamente ad un funzionamento “psicotico” della società, in cui lo strapotere dell’ES non tiene affatto conto della realtà esterna, sempre più aderente e assecondante le richieste pulsionali di immediatezza e di soddisfazione illimitata del piacere.

Il problema non è più quindi quello di rimuovere i desideri inconsci ma trovare delle difese sempre più forti per evitare di sentire l’angoscia. E così, l’uomo supermoderno per non sentire l’angoscia è costretto ad agire rapidamente, a consumare tutto in breve tempo e compulsivamente, trovando terreno fertile nella logica moderna del consumismo.

Viviamo in  un mondo diretto esclusivamente dal denaro e che ha come obiettivo la conquista del denaro, strumento che consente la soddisfazione del piacere.

Se per Freud la pulsione era soprattutto sessuale e libidica, ora invece è monetaria. Si sta tornando ad una vita primitiva, selvaggia, mascherata di modernità, dove la difesa più forte è il riconoscimento e l’ostentazione della propria forza che deve far paura per sottomettere, in nome di una pulsionalità dilagante.

Vittorino Andreoli sostiene che il modello che risponde meglio a questo criterio è dato dalle mafie, considerate da lui “il sistema più straordinario di conquista del potere su base esclusivamente pulsionale, senza tenere conto dei principi della società, del Super-Io e delle leggi. La mafia diventa il sistema perfetto perché ignora completamente lo Stato e semmai lo compera o, nel limite del possibile lo sottomette con la violenza, che è la forza di ogni pulsione, e anche della sessualità selvaggia, maschia, che vede la donna immobilizzata e dominata”[5].

La civiltà sta forse morendo, perché non deriva più dal sapere, dalla morale, dall’educazione e dalle buone maniere, tutto si riduce a pulsione : “ Io sono più forte di te e dunque ubbidisci a me”, “Io lo voglio e quindi me lo devo prendere”.

Il dominio della forza mostra vantaggi e procura ricchezze, e la ricchezza non si deve nascondere, sarebbe come celare il proprio potere; ecco la nuova difesa dall’angoscia, il potere.

Il potere o anche l’illusione che tutto è concesso, che tutto si può, che non si ha più bisogno di desiderare perché non esistono freni ai nostri desideri.

La speranza è che l’uomo non smetta mai di desiderare e di porsi delle domande, che ogni tanto sia invaso da qualche dubbio e che ritrovi la forza di saper attendere; solo in una realtà che ristabilisca dei limiti e reali prospettive di realizzazione, l’uomo potrà riappropriarsi di quella componente essenziale  di apertura verso l’altro e di spinta motivazionale che è il desiderio.

 

 

 

 

 

 



[1] Freud S., ( 1921), “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”, in OSF, Vol.9, Bollati Boringhieri, Torino, 1996, p.261.

[2] Recalcati M. (2010), L’uomo senza inconscio: figure della nuova clinica psicoanalitica. Raffaello Cortina Editore, Milano, p.IX.

[3]Winnicott D., (1970) Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Editore, Roma. Winnicott definisce madre sufficientemente buona quella madre che, in maniera istintiva, possiede le capacità di accudire il bambino dosando opportunamente il livello della frustrazione che gli infligge.

[4] Recalcati  M. (2010), op.cit., p.13.

[5] Andreoli V. (2011), Dialogo tra uno psichiatra e il suo paziente, Rizzoli Editore, Milano, p.192.

La depressione secondo le teorie psicoanalitiche

“La depressione secondo le teorie psicoanalitiche”, tratto in data 19-11-2008 da Obiettivo Psicologia. Formazione, lavoro e aggiornamento per psicologi

http://www.opsonline.it/index.php?m=show&id=15684

 

Ci sono valide prove della relazione tra la profondità dei sentimenti di perdita e un’aumentata vulnerabilità a disturbi psichiatrici e fisici. Come abbiamo già accennato, le vedove e i vedovi hanno più probabilità, rispetto alle persone che non attraversano il lutto, di morire essi stessi per attacco coronarico nell’anno successivo alla morte dei loro partner (soprattutto se è stata improvvisa).
Tra i pazienti depressi, il 60-70 per cento, hanno avuto un doloroso evento di perdita (che generalmente riguarda la perdita o la minaccia di perdita di una relazione di attaccamento) nell’anno precedente alla loro malattia, laddove nel gruppo dei controlli non depressi la percentuale scende al solo 20 per cento. Ricadute schizofreniche sono spesso indotte da una perdita o da un cambiamento inaspettato. I suicidi o coloro che tentano di suicidarsi hanno, analogamente, molto frequentemente sperimentato una perdita rispetto ai non suicidi.

Tuttavia, perché la perdita sia patogenetica, essa deve essere inserita in un contesto di altre variabili importanti.
Non tutti coloro che subiscono un lutto soccombono alla depressione. Coloro per i quali la perdita è stata improvvisa e assolutamente inaspettata, o che avevano una relazione di dipendenza con la persona perduta, o che si sentivano con essa ambivalenti e che comunque mancano di relazioni di sostegno e di una rete di amici, sono molto più vulnerabili.
Dobbiamo inoltre ricordare che la depressione di per sé non è da considerare come malattia (che può essere talvolta talmente grave da portare al suicidio), quanto piuttosto un affetto che rientra nell’esperienza di ogni uomo che sorretto da figure interne sufficientemente buone e affidabili, sappia vivere, elaborare e trasformare il lutto per la perdita, ma anche una realtà radicata nella nostra evoluzione psichica, una sorta di condizione indispensabile per la creatività e comunque un sentimento abituale, quotidiano addirittura, dell’uomo normale.
Quando, invece, l’intensità della depressione supera certi limiti o si presenta in circostanze che non la giustificano diventa di competenza psichiatrica, dove si distingue una depressione endogena che, come vuole l’aggettivo, nasce ‘dal di dentro’ senza rinviare a cause esterne, e una depressione reattiva che è patologica solo quando la reazione ad avvenimenti luttuosi o tristi appare eccessiva. Essa è caratterizzata principalmente da sentimenti di vuoto, di tristezza e di apatia.
Le interpretazioni della depressione sono diverse e si differenziano a seconda dello schema teorico di riferimento.

La depressione rappresenta uno di quei fenomeni clinici che per via della loro irriducibile caratteristica, ossia per la scarsa o inesistente adattabilità (almeno apparente), hanno messo in difficoltà gli psichiatri, costringendoli ad un inevitabile revisione delle loro teorie basate sul principio edonistico: è “innaturale” che si scelga il dolore piuttosto che il piacere. Perché attaccarsi alle recriminazioni verso se stessi, all’autorimprovero, all’autocommiserazione e all’infelicità?. Nella depressione, inoltre, per la prima volta Freud presenta un’emozione, piuttosto che un desiderio sessuale, come fattore eziologico centrale e focale della malattia.

Sebbene Lutto e melanconia venga considerato l’opus princeps sul tema, in cui Freud confronta l’essenza della melanconia e l’affetto normale del lutto, è in Karl Abraham, psicoanalista tedesco, che la psicoanalisi rintraccia il suo scritto originario sulla depressione. Egli, nel 1912, tracciò quel parallelo tra lutto e melanconia che per lungo tempo costituì il riferimento principale per i pensatori di questo campo. Considerando il dolore per la perdita di un oggetto amato un fenomeno essenzialmente normale, egli affermò che il lutto e la melanconia sono per certi versi simili in quanto, in entrambe i casi i soggetti soffrono ma, mentre il lutto è sempre causato da una perdita oggettiva, la melanconia sembra essere un dolore dissennato, eccessivo, spesso senza causa e apparentemente ingiustificato.

Inoltre, con una spiegazione eziologica eccezionale per i suoi tempi, egli rintracciò una spiccata ambivalenza nel melanconico dovuta alla presenza dell’ira, da lui stesso definita “ostilità inconscia”.
L’individuo tende a superare il limiti del lutto normale (dolore) per passare ad una melanconia abnorme (depressione) quando questa reazione per l’amore perduto si carica di ira (rabbia, ostilità inconscia) come pure di amore.
Poiché a quell’epoca la teoria della libido offriva solo una spiegazione per l’ostilità, il sadismo anale, la spiegazione della depressione doveva risiedere nella fissazione anale. Ma Abraham, grande osservatore clinico, riscontrò evidenti aspetti orali nei pazienti depressi, il che determinò un riesame dello schema della fissazione che, a sua volta, portò alla creazione di un nuovo stadio evolutivo, la fase sadico-orale, mantenendo così l’oralità nella sua relegazione dei disturbi più primitivi, quali la schizofrenia.
A partire dalla concettualizzazione della fase sadico-orale, Freud costruì la sua teoria nello scritto Lutto e Melanconia che venne pubblicato solo due anni dopo la sua realizzazione, nel 1917.

Il problema del lutto e della malinconia, in realtà ha occupato per lunghi anni la mente di Freud, diversi casi, infatti, proponevano il problema della perdita e del lutto e la sua stessa autoanalisi aveva preso avvio da un lutto, la perdita del padre, il cui frutto, come è noto era stato L’interpretazione dei sogni. Sembra quasi che Freud si sia sforzato di comprendere il contenuto del proprio inconscio e non il processo in se stesso (un processo di lutto) nella sua autoanalisi.

Haynal considera il lutto, la depressione che ne deriva e il processo analitico come assai vicini tra loro, stabilendo un nesso tra depressione e creatività. Riprendendo interamente la teoria di Abraham, Freud introduce una distinzione: il lutto è sempre collegato ad un oggetto perduto nella realtà e percepito coscientemente; la melanconia, invece, pur potendo essere collegata ad un oggetto simile, più spesso si collega alla perdita immaginaria di un oggetto, percepita inconsciamente.

Il lutto e la melanconia hanno alcuni aspetti in comune:

  1. Deflazione dell’umore (in termini freudiani abbattimento doloroso)
  2. Ritiro dell’interesse dal mondo esterno
  3. Inibizione dell’attività
  4. Perdita della capacità di amare

Inoltre, la melanconia manifesta alcuni altri aspetti:

  1. Deflazione della stima di sé
  2. Autoaccuse
  3. Bisogno delirante di autopunizione

Queste osservazioni cliniche straordinariamente precise hanno resistito alla prova del tempo.
Il sistema teorico freudiano considera tutti gli aspetti clinici distintivi del melanconico:

  1. Perdita dell’oggetto amato (reale o immaginario)
  2. Ritiro della libido dall’oggetto (la ruminazione sull’amore perduto è considerata come processo di ritiro della carica energetica)
  3. Collera verso l’oggetto (debito ad Abraham)
  4. Regressione dell’Io alla fase sadico-orale
  5. Ambivalenza dell’Io
  6. Scissione dell’Io

Una parte dell’Io regredisce ad un livello ricettivo orale, un’altra parte si identifica con l’oggetto perduto, prima introiettato. La parte sadistica dell’Io attacca quindi l’oggetto, che ora è fuso con la parte ricettiva dell’Io. Coscientemente questo viene percepito come un conflitto tra una parte dell’Io e la sua facoltà autocritica (una rudimentale anticipazione del futuro concetto di Super-Io).
Questo determina un crollo della stima di se, autoaccuse e bisogno di autopunizione che vengono, quindi, viste come un tentativo di punire la figura amata che lo abbandona.
Nel corso degli anni, Abraham, apportò delle modifiche di estrema importanza alla sua teoria originaria della depressione. Egli affermò che:

  1. esiste una predisposizione orale (concetto rivisto da Bibring).
  2. esiste una primitiva ferita narcisistica (una delusione infantile).
  3. la delusione si verifica prima della risoluzione del complesso edipico.
  4. esiste in seguito nella vita una ripetizione di tale delusione, che riattiva la condizione predisponente primaria.

Le implicazioni di queste modifiche riguardano quindi principalmente una considerazione dei “due tempi della nevrosi” teorizzata da Freud in quei tempi, ossia uno stato di labilità nell’adulto originata da una nevrosi infantile.
Inoltre, estremamente importante è la considerazione di una multifattorialità eziopatogenetica della depressione e una possibile chiave di lettura alle differenti reazioni alla perdita presenti nell’adulto.
In altre parole i futuri depressi sono essenzialmente persone dipendenti con alcuni difetti basilari nella loro stima di sé e nel loro sistema di orgoglio personale.
Con la pubblicazione di un lavoro di Sandor Rado, nel 1928, la posizione psicoanalitica classica sulla depressione raggiunse la sua forma completa.

Tre punti principali acquistano risalto nella sua teoria:

  1. Bisogno insaziabile di gratificazioni narcisistiche nei depressi.
  2. Ruolo della collera.
  3. Concetto di espiazione della colpa.

Fondandosi sulle ipotesi di Abraham e di Freud, Rado segnala, fra le caratteristiche dei depressi, un intenso desiderio di gratificazione narcisistica, intenso bisogno di essere amati e approvati e una stima di sé che dipende unicamente dalle relazioni con l’oggetto.

Il depresso è instancabile nella sua ricerca d’amore, si nutre dell’oggetto, senza rendersene conto ed è per questo che reagisce con una violenza estrema all’aggressione o alla minaccia di ritiro dell’amore oggettuale. Quando questa rivolta si risolve in un fallimento, il soggetto rivolge la sua aggressività contro se stesso e sprofonda nella melanconia.

L’autopunizione è un atto espiatorio, un pegno per avere il perdono per l’attacco di collera. Tutto è trasferito al mondo interno, l’Io passa da uno stato di rivolta ad uno stato di colpevolezza, quest’ultima derivante dalle tendenze aggressive nei confronti dell’oggetto.

L’Es viene allora vissuto come più potente dell’Io e si associa al Super-Io per schiacciare l’Io con la stessa violenza che l’Io aveva usato per aggredire l’oggetto. È per questo che l’Io cerca di ottenere il perdono del Super-Io nello stesso modo in cui cercherebbe di ottenere quello dell’oggetto.

Colpa-riparazione-perdono’: in questi termini è vista ora la chiave dinamica della depressione. Con questi significativi cambiamenti della teoria classica, Rado si apprestava a diventare uno dei critici più implacabili e incisivi della teoria freudiana. Concetti fondamentali nella prima teoria, come introiezione e narcisismo, vennero successivamente abbandonati.

Il ruolo delle emozioni come la paura e la rabbia divennero centrali. Le nevrosi vengono considerate come il risultato di una iperreazione emotiva attivata dall’organismo in situazioni di emergenza. In sostanza, per Rado la depressione è un rigido inconscio che chiede amore, determinato da una perdita effettiva o immaginaria; inoltre, il paziente sente che la perdita mette in pericolo la sua sicurezza. L’ambivalenza che si trova nei pazienti depressi è ora spiegata dal conflitto tra la rabbia dominatrice e la paura remissiva.

Fin qui l’unico aspetto comune a tutte le teorie della depressione presentate è stata l’implicita equazione tra lutto e melanconia. Fu questa analogia che dettò il ruolo centrale della ‘perdita dell’oggetto amato’ nell’eziologia della depressione, ma l’esperienza clinica riscontrava che non sempre la depressione aveva inizio dalla perdita di un oggetto amato, inoltre, si intuiva che l’oggetto d’amore potesse essere in realtà un simbolo di qualcosa di più fondamentale.

Come fa notare Gaylin, Kierkegaard nel saggio La malattia mortale afferma che una giovane donna che perde il fidanzato, se si dispera, non prova dolore per il fidanzato perduto, ma per il Sé-senza-fidanzato. E così è per tutti i casi di perdita, si tratti di denaro, di potere o di rango sociale. Se un uomo è stato licenziato, è stato umiliato socialmente. È il senso di fallimento personale, di impotenza e di inutilità che domina l’esperienza dell’individuo che fa disperare più dell’abbandono in sé.

Otto Fenichel comprese chiaramente il rapporto tra depressione e autostima. Egli afferma che l’esperienza precipitante nel paziente depresso è o la perdita dell’autostima o una perdita delle risorse che gli assicurerebbero o addirittura gli accrescerebbero l’autostima. Non è essenzialmente la perdita dell’oggetto amato o dei suoi corrispettivi simbolici a causare la depressione. In realtà, solo quando un oggetto amato è investito dalla nostra autostima la sua perdita produce depressione. Ciò che lamentiamo è la nostra perduta autostima, in quanto l’oggetto d’amore è semplicemente un simbolo di essa.

Naturalmente il concetto di autostima è culturalmente è storicamente determinato. Ad esempio, l’orgoglio di un uomo, la virilità e la fiducia in sé si basano principalmente sulla sua carriera professionale; sono, infatti, più gli uomini che si buttano dalla finestra per la perdita di un affare che per la perdita di un figlio, e questo non perché amino meno i figli, ma perché perdendo l’affare perdono la sicurezza, il prestigio, l’orgoglio di sé e in definitiva la fiducia e la speranza in sé.

I soggetti che reagiscono alla delusione amorosa con gravi depressioni, sono sempre persone per le quali l’esperienza amorosa significa non solo una gratificazione sessuale ma anche una gratificazione narcisistica. Con l’amore perdono la loro stessa esistenza. Affermando questo, Fenichel sposta l’interesse dall’Es all’Io, dal sesso alla sopravvivenza.
Fu Bibring che scelse di spiegare la depressione in termini di psicologia dell’Io. Egli considerò la depressione come emergente dalla tensione tra ideali e realtà.

Tre aspirazioni narcisistiche altamente investite – di volere essere amato, di essere forte e superiore, di essere bravo e amorevole – vengono considerate parametri di condotta. Tuttavia, la consapevolezza dell’Io della sua reale o supposta incapacità di essere all’altezza di questi parametri, produce depressione. Il sentimento di impotenza porta il soggetto ad una situazione di aggressività verso se stesso, ma solamente quale fenomeno secondario. Bibring fu il solo a non riconoscere un ruolo chiave al Super-Io. Ritenne, invece, che la tensione cresca all’interno dell’Io stesso, e non tra l’Io e un’altra istanza psichica. Secondo quest’autore, qualunque frustrazione o ferita narcisistica che riduca la stima di se può degenerare in una depressione clinica.

Continuando il paragone tra depressione e angoscia, afferma che come l’angoscia, la depressione è una reazione di base dell’Io. Mentre però l’angoscia è una reazione al pericolo con cui l’Io si prepara alla lotta o alla fuga, nella depressione avviene il contrario. L’Io è paralizzato perché incapace di affrontare il pericolo. “È come se si rivivesse quello stato dell’Io caratterizzato dall’impotenza, quindi una riattivazione di uno stadio strutturale anteriore dell’Io, lo stato di impotenza provato nella situazione infantile.
In sintesi, l’ideale dell’Io, sostenuto da aspirazioni narcisistiche, svolgerebbe un ruolo fondamentale nei meccanismi intrapsichici della depressione.

Rifuggendo dal linguaggio e dall’orientamento degli psicologi dell’Io, la Klein si basa sul modello della psicologia dell’Es, in cui ogni nevrosi deriva da una regressione ad un punto di fissazione rappresentante uno stadio precedentemente normale dello sviluppo.

La Klein postula che il paziente depresso è un individuo regredito ad uno stadio di sviluppo che si verifica nella seconda metà del primo anno di vita che denomina “posizione depressiva normale”. La regressione risulta perché l’Io è minacciato dall’aggressività del suo stesso Es, un’aggressività che è funzione dell’istinto di morte (concetto prevalente nelle sue teorie).

Seppur apparentemente distante dalle teorizzazioni di Bibring, la Klein identifica la posizione depressiva del bambino con quel momento in cui il soggetto esperisce il proprio sentimento di impotenza, di vulnerabilità e di dipendenza. È quindi possibile riconoscere in quel punto di fissazione che la Klein definisce posizione depressiva, ciò a cui Bibring fa riferimento parlando di esperienza di impotenza e diminuizione dell’autostima tipica dell’infanzia che viene rivissuta dal depresso.

L’autrice, comunque, si propone di trattare degli stati depressivi in rapporto alla paranoia da un lato e alla mania dall’altro. Nel depresso permane l’angoscia suscitata dal timore che gli oggetti buoni, e l’Io con loro, possano essere distrutti; ciò è dovuto al suo insuccesso nel non essere stato capace di dominare la paura paranoide dei persecutori interni.

Mentre nella posizione schizo-paranoide si manifestava soltanto la paura di essere perseguitato da oggetti cattivi, nella posizione depressiva si presenta una seconda paura, quella di distruggere l’oggetto buono.

Per difendersi contro questo secondo timore, il bambino elabora delle difese maniache, fondate sull’onnipotenza, il cui fine è da una parte di difendersi contro gli oggetti cattivi e dall’altra di salvare e riparare gli oggetti d’amore.

La paura di danneggiare l’oggetto buono, può permanere nella vita adulta di alcuni individui i quali si sentono obbligati a scegliere la via dell’insuccesso perché per essi il successo significa sempre l’umiliazione o addirittura il danneggiamento di qualcun’altro.

Ciò porta l’individuo ad utilizzare difese maniacali quali l’idealizzazzione e il disprezzo o il diniego per evitare di riconoscere che l’oggetto è stato danneggiato e deve essere riparato. Le difese maniache e ossessive perdono la loro ragion d’essere man mano che il bambino acquista fiducia nelle sue capacità di riparazione e nella sicurezza che gli conferiscono i suoi oggetti interni.

Un soggetto che ha superato la posizione depressiva può nella sua riattuazione, in seguito ad un lutto in età adulta, ricostruire il proprio mondo interiore disgregato e in pericolo, riacquistando il senso della sicurezza e pervenendo a un’autentica armonia e a una vera pace. Nel depresso, invece, come nella prima infanzia non si riesce a consolidare gli oggetti interni ‘buoni’ e a sentirsi sicuro nel suo mondo interiore.

Per Melanie Klein, la depressione sarebbe quindi il fallimento della riparazione nella posizione depressiva. Inoltre, anche nell’adulto, come nell’infanzia, l’esistenza di un ambiente che dia conforto e sollievo favorirà la restaurazione dell’individuo.

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