Sigmund Freud aveva ragione: le nuove ricerche lo riabilitano
Le nuove tecniche di neuroimaging provano gli effetti sul nostro cervello delle terapie psicoanalitiche. E confermano le teorie del maestro viennese
Saranno le neuroscienze a salvare la psicoanalisi? Se fino a qualche anno fa le teorie di Freud sembravano in procinto di soccombere sotto il peso del progresso scientifico, oggi proprio le tecniche di neuroimaging le rivalutano, confermandone la validità. E dando vita a un nuovo filone di ricerca che indaga le basi fisiologiche dei cambiamenti prodotti nel cervello dalle terapie psicoanalitiche, con l’obiettivo di individuare le radici fisiologiche dei concetti base della psicoanalisi. Come racconta la scrittrice americana Casey Schwartz nel saggio “In the Mind Fields: Exploring the New Science of Neuropsychoanalysis”.
Una novità radicale? In realtà Freud stesso nasce come neurologo, interessato a studiare la struttura del cervello. Anche se all’epoca le neuroscienze erano appena agli inizi, e l’esistenza stessa dei neuroni ancora in discussione. Oggi, osserva lo psicoanalista Amedeo Falci, coordinatore del gruppo Psicoanalisi e Neuroscienze della Società Psicoanalitica Italiana, «sono sempre di più gli psicoanalisti convinti che gli strumenti offerti dalle neuroscienze siano indispensabili per il futuro della psicoanalisi».
Per vedere come cambia il cervello prima e dopo la terapia si utilizzano soprattutto tecniche di visualizzazione come la tomografia a emissione di positroni (Pet) e la risonanza magnetica funzionale (fRmi). Lavorando, in genere, con pazienti che hanno seguito psicoterapie brevi a orientamento psicoanalitico, per evitare i tempi troppo lunghi della psicoanalisi classica, uno degli elementi che hanno rallentato la ricerca. «In questo modo è stato possibile verificare che la terapia della parola aumenta le connessioni tra i neuroni, e quindi la riorganizzazione del sé, inteso come unità cervello mente», dice Falci. Ovviamente le tecniche di imaging non permettono di fotografare il pensiero: «Servono a misurare l’attivazione delle diverse aree cerebrali, che devono comunque essere analizzate su base statistica». Ma anche così, i risultati sono più che interessanti.
Negli Stati Uniti gli psicoanalisti Andrew Gerber della Columbia University e Bradley Peterson del Children’s Hospital di Los Angeles lavorano insieme da un decennio per trovare conferme fisiologiche di quanto avviene seduta dopo seduta. «Lavorando con i pazienti ci rendiamo conto quotidianamente che la loro mente cambia», spiega Gerber: «È un dato di fatto, la sfida è capire che cosa significhi».
È nato così un progetto che analizza i cambiamenti nel corso della terapia, una sorta di riassetto dell’attività cerebrale che l’analista americano, utilizzando un termine preso in prestito dalla metallurgia, paragona «alla “ricottura” di molecole surriscaldate e poi riportate a uno stato più stabile del precedente». E qualche mese fa il convegno del Centro Milanese di Psicoanalisi dedicato a “L’esperienza delirante” – un problema che riguarda i pazienti più gravi, una delle sfide che affronta la psicoanalisi contemporanea – ha dato spazio al neuroscienziato Georg Northoff, che ha mostrato grazie al neuroimaging come si manifestino all’interno del cervello le allucinazioni che i pazienti psicotici vivono come se si trattasse di una realtà esterna.
C’è anche chi è andato oltre. Come Mark Solms, lo psicoanalista e neuroscienziato sudafricano che ha revisionato la traduzione inglese delle opere di Freud. Solms ha osservato, in pazienti con una lesione all’emisfero destro del cervello, un atteggiamento distaccato nei confronti della realtà, simile quello che secondo il pensiero di Freud caratterizza l’atteggiamento narcisista. Arrivando così alla conclusione che è proprio l’emisfero cerebrale destro a definire i confini tra noi stessi e il mondo, e a distorcerli in caso di lesioni. Una tesi che ha discusso di fronte alla Società psicoanalitica di New York, uno dei baluardi della psicoanalisi tradizionale. «Oggi la neuropsicoanalisi è una realtà con cui si deve dialogare, riconosciuta anche dall’International Psychoanalitical Association, l’associazione che riunisce i freudiani», spiega Falci.
Le teorie più innovative possono contare anche sul sostegno di grandi vecchi, come l’ottantaseienne Otto Kernberg, noto per i suoi studi sui pazienti con gravi disturbi della personalità – oltre che per il suo atteggiamento iconoclasta – che utilizza per le sue ricerche strumenti di neuroimaging. «La psicoanalisi è molte cose diverse: una teoria della personalità, una terapia e un metodo per investigare i fenomeni inconsci. Ma in passato è stata gravemente limitata dal fatto di aver ignorato le basi biologiche del funzionamento mentale, rinunciando a dialogare con le altre scienze», afferma Kernberg. Che in una ricerca pubblicata nel 2007 già mostrava come nei suoi pazienti si verifichino modifiche dell’attività cerebrale, coerenti con il loro comportamento: in particolare, un’intensificazione dell’attività dell’amigdala e una riduzione dell’attività di un’area della corteccia prefrontale che gioca un ruolo importante nell’inibizione.
Se l’obiettivo di Freud era dimostrare l’importanza dell’inconscio, le neuroscienze stanno confermando che gran parte dell’attività mentale si svolge sotto il livello di coscienza: «La sfida ora è quella di spiegare con gli strumenti delle neuroscienze cosa sia la coscienza», osserva Falci. E gli alfieri della neuropsicoanalisi sono convinti che lo scopritore dell’inconscio sarebbe dalla loro parte. «Freud attendeva con ansia il momento in cui le sue teorie si sarebbero potute integrare con scoperte neuroscientifiche», conclude Peterson: «Se oggi fosse vivo, lavorerebbe con noi».