Una buona occasione
UNA BUONA OCCASIONE ( di Stefano Mengarelli)
Il Coronavirus ha portato l’Italia a vivere un periodo storico inedito e insospettato. Tutto sembra come sempre ma nulla è come prima… Ci guardiamo con sospetto, manteniamo distanze di sicurezza, il traffico delle strade a cui siamo abituati sembra un lontano ricordo (nostalgico?), scuole chiuse, cinema e teatri chiusi, gli inviti a rimanere a casa propria. Tutto molto strano, quasi irreale, ma nonostante tutto questa situazione è una grande occasione che non possiamo lasciarci sfuggire e abbiamo il dovere morale di coglierla.
Prima di tutto il Coronavirus ha reso evidente tutta la fragilità di cui è fatto l’uomo, ha evidenziato le nostre angosce e la nostra immanente precarietà attaccando i nostri deliri di onnipotenza e di autosufficienza che tirannicamente inchiodano la nostra vita a logiche di efficienza e prestazione disumanizzando l’umano.
Altra conseguenza del Coronavirus è che da ora in poi saremo costretti a riflettere sul modo in cui proiettivamente abbiamo sempre visto nell’altro il male, il virus, il problema… Ora siamo noi I possibili portatori del virus, perchè questa volta il “contagiato” non ha un volto, il “portatore di contagio” non ha una faccia ,non ha un colore, quindi siamo tutti, quindi sono io, quindi sei tu. Per la psicoanalisi tutto ció che è fuori è prima di tutto dentro e questo deve farci riflettere sulle soluzioni che nei muri trovano rassicurazioni.
Inoltre, questa situazione di “quarantena” ci da l’occasione per riflettere ed apprezzare quello che abbiamo e a cui nel quotidiano non facciamo più caso. Un paziente stamattina mi ha detto ” dottore, questo Coronavirus rende reale quello che ho”, è proprio così. Lo rende reale perché ci manca, e quindi lo desideriamo, perchè si sa, desideriamo solo quello che ci manca. Ora non possiamo abbracciarci, stringerci la mano, organizzare cene con amici, andare al cinema, a teatro.. Tutte cose che prima erano semplici pratiche quotidiane come bere un bicchiere d’acqua a cui non facevamo neanche troppo caso, visto che le nostre vite ci apparivano sempre più deludenti rispetto a chissà quale standard di vita.
La buona notizia è che ora tutto questo ci potrebbe mancare e potremmo arrivare a morire dalla voglia di tornare a riabbracciarci.
L’inconscio nell’uomo supermoderno
Articolo scritto dal dott. Stefano Mengarelli
Sigmund Freud in un noto passaggio di “Psicologia delle masse e analisi dell’Io” afferma : “ Nella vita psichica del singolo, l’altro è regolarmente presente come modello, come soccorritore, come nemico e pertanto … la psicologia individuale è al tempo stesso, fin dall’inizio psicologia sociale”[1].
La società riveste quindi un ruolo fondamentale per la psiche dell’uomo, incide in modo decisivo sulle sue abitudini, sui modi di vivere e ne condiziona le sue psicopatologie.
Tutto si trasforma ed è in continuo cambiamento, e l’inconscio? Come ricorda Recalcati, l’inconscio “non è un’essenza sovrastorica immune da trasformazioni sociali”[2], quindi appare lecito chiedersi a quali trasformazioni andrà incontro l’inconscio dell’uomo di oggi e di domani.
L’imperativo capitalista al consumo smisurato, all’edonismo senza freni, al godimento illimitato nel consumo dell’oggetto, fanno pensare ad una società che sta perdendo di vista il senso del limite. È un disegno consumistico che tende all’illimitato, all’assenza di frustrazioni e a rispettare le leggi di un unico padrone: il piacere.
Ma si può veramente parlare di piacere in assenza di un limite? Un limite traccia anche un confine tra ciò che si può e quello che non si può, tra ciò che piace e quello che non piace,e a questo punto ci possiamo chiedere: in una società dove tutto è piacere, godimento immediato e smisurato, che fine ha fatto il dispiacere? Dove lo abbiamo nascosto? E soprattutto, se tutto tende al piacere, che fine fa il desiderio? Avremo ancora bisogno di desiderare qualcosa? L’inconscio come sappiamo è il “luogo” del desiderio e alla luce delle domande che ci siamo posti non ne rimane che una : che fine farà l’inconscio?
Queste sono domande aperte a cui solo il tempo potrà rispondere, per ora possiamo solo osservare come si evolvono certi fenomeni e certe abitudini dell’uomo inserito in questo mondo ipertecnologico e vedere a quali trasformazioni andrà incontro.
Ad esempio, ricordo che da ragazzo c’erano le musicassette di questo o di quel cantante o gruppo musicale e generalmente le canzoni presenti variavano da 10 a 14 al massimo, divise in 2 parti uguali generando gli storici lato A e lato B. Ovviamente non tutte le canzoni erano di nostro gradimento e quando arrivava quella che non ci piaceva era automatico premere il dito sul tasto Avanti del nostro Walkman… la facevamo scorrere velocemente per poi passare alla più gradita canzone successiva e così via per le altre; in quelle musicassette, c’erano canzoni “belle” e canzoni “brutte” e tutte coesistevano nello stesso spazio, nella stessa radio; era quindi una sorta di allenamento continuo alla “tolleranza”, al fatto che non tutto fosse piacevole.
Oggi è diverso, ci sono gli Ipod, gli mp3/4/5/infinito, dove all’interno di essi abbiamo la possibilità di inserire solo ciò che vogliamo, tutte le canzoni che più ci piacciono ed organizzarle in playlist per ogni evenienza : il gruppo di canzoni da ascoltare per le passeggiate, il gruppo di canzoni stimolanti per le attività di fitness, ecc. Nel nostro Ipod non abbiamo più canzoni che non ci piacciono, e anche se così fosse … basta un click, per eliminarle per sempre. Non c’è “tolleranza”, non c’è “sopportazione”. E poi non ci sono più 10/14 canzoni, ma 1000, 5000, infinite canzoni, ed è come dire : “io voglio solo quello che mi piace, e lo voglio ora, immediatamente, ma non un po’ … io lo voglio tutto!”.
Una profonda trasformazione, o meglio una vera e propria rivoluzione culturale e sociale la possiamo senza dubbio trovare in Internet. Il riferimento di ogni sapere dell’uomo supermoderno è la rete digitale; tutti abbiamo ed avremo a disposizione Internet e ce lo porteremo appresso come un’appendice corporea, come un prolungamento del nostro stesso corpo.
Ognuno può cliccare e sapere, e ormai i motori di ricerca permettono in tempo reale di avere la risposta a qualsiasi domanda o a qualsiasi dubbio e di farlo nell’immediatezza.
Le biblioteche sono vecchi ricordi, troppo tempo perso e troppa fatica; per aspettare un libro ordinato può passare anche qualche ora o giorno addirittura e poi il regolamento delle biblioteche prevede che non si possano consultare più di un certo numero di libri alla volta.
Intenet ha risolto ogni problema, perché lì c’è tutto, non pochi libri ma tutti i libri, non qualche ora o giorno di attesa ma qualche secondo al massimo. All’uomo supermoderno è vietato attendere, ed ogni bisogno deve essere soddisfatto nell’immediato.
Sembrerebbe proprio che nell’era di Internet non serva molto l’utilizzo del cervello, il sapere è digitale e ciò significa letteralmente che dipenderà dalle dita e dai polpastrelli che cliccano.
Tutto è a misura di click. Con una cliccata si soddisfa ogni desiderio, tutto può essere aperto o chiuso per sempre; è come una chiave magica che apre tutte le porte con il vantaggio che ce l’abbiamo in dotazione dalla nascita: il nostro indice, a cui , grazie ai supermoderni touch screen è stata tolta anche la fatica di fare pressione per digitare.
Stesso discorso per i cellulari, protagonisti indiscussi della nuova era comunicativa dell’uomo supermoderno; su un comune smartphone c’è tutto, tutta la musica che si vuole sentire, tutti i film che si vogliono vedere e tutti i giochi che ci aiutano a sopportare la noia di una qualsiasi attesa.
È come un immenso seno pieno di latte, sempre lì pronto a soddisfare ogni desiderio del poppante supermoderno, di una madre infinitamente buona, una madre che in bontà e generosità scavalca di gran lunga la mamma sufficientemente buona descritta dallo psicoanalista inglese D.Winnicott[3] .
In questa madre dell’uomo supermoderno non c’è traccia di frustrazione, tutto è permesso, tutto è dovuto, e il godimento assume la forma di un imperativo sociale che rifiuta ogni tipo di castrazione: bisogna godere! Il piacere diventa così la Legge dei nostri tempi.
Il personaggio che contiene in se le radici di queste riflessioni e a cui possiamo far riferimento per capire meglio in che modo sta cambiando la nostra società è sicuramente Silvio Berlusconi.
Berlusconi fa epoca non tanto per l’azione di governo che ha caratterizzato la sua missione politica, ma per come la sua persona abbia definitivamente scolpito nelle tavole della nostra “Legge” morale e sociale, il “dictat” del godimento ad ogni costo. Non solo i suoi cosiddetti comportamenti privati, ma in modo assai più emblematico, la sua stessa azione legislativa ( le leggi ad personam), svelano come il massimo rappresentante della vita dello Stato “miri alla realizzazione del proprio godimento situato non come capriccio estemporaneo, ma come di diritto inscritto nella funzione istituzionale che egli ricopre”[4].
Non c’è vergogna, senso di colpa, senso del limite, perché la Legge supermoderna coincide proprio con il piacere, con il godimento, in nome del quale tutto è permesso.
Freud ha parlato di conflitto tra istinti e Super-Io, tra desiderio e dovere, una lotta che finisce con il compromesso dell’Io e la nascita del sintomo; nell’Io dell’uomo freudiano non tutto era permesso, e il Super-Io nato dall’Edipo esigeva la rinuncia pulsionale come condizione di accesso alla Civiltà.
Ma nell’uomo supermoderno stiamo assistendo ad una profonda trasformazione, il Super-Io ha perso la sua autorevolezza e l’Io sta cedendo alle richieste di soddisfazione pulsionale dell’ES; il sacrificio pulsionale viene negato nel nome di una falsa liberazione della pulsione che si svincola da ogni forma di sublimazione promettendo un godimento immediato, senza più limiti.
La facilitazione dell’accesso al godimento, la via libera concessa alla scarica pulsionale, una sessualità agita compulsivamente, scorporata dall’amore, non risulta affatto liberatorio ma altamente repressivo poiché spegne il movimento del desiderio.
In un mondo totalmente pulsionale, l’uomo supermoderno appare quindi un uomo che non ha più necessità di desiderare, e il conflitto non è più tra la rimozione e il ritorno del desiderio inconscio proibito, inaccettabile, della visione della nevrosi freudiana; al contrario, si sta passando lentamente ad un funzionamento “psicotico” della società, in cui lo strapotere dell’ES non tiene affatto conto della realtà esterna, sempre più aderente e assecondante le richieste pulsionali di immediatezza e di soddisfazione illimitata del piacere.
Il problema non è più quindi quello di rimuovere i desideri inconsci ma trovare delle difese sempre più forti per evitare di sentire l’angoscia. E così, l’uomo supermoderno per non sentire l’angoscia è costretto ad agire rapidamente, a consumare tutto in breve tempo e compulsivamente, trovando terreno fertile nella logica moderna del consumismo.
Viviamo in un mondo diretto esclusivamente dal denaro e che ha come obiettivo la conquista del denaro, strumento che consente la soddisfazione del piacere.
Se per Freud la pulsione era soprattutto sessuale e libidica, ora invece è monetaria. Si sta tornando ad una vita primitiva, selvaggia, mascherata di modernità, dove la difesa più forte è il riconoscimento e l’ostentazione della propria forza che deve far paura per sottomettere, in nome di una pulsionalità dilagante.
Vittorino Andreoli sostiene che il modello che risponde meglio a questo criterio è dato dalle mafie, considerate da lui “il sistema più straordinario di conquista del potere su base esclusivamente pulsionale, senza tenere conto dei principi della società, del Super-Io e delle leggi. La mafia diventa il sistema perfetto perché ignora completamente lo Stato e semmai lo compera o, nel limite del possibile lo sottomette con la violenza, che è la forza di ogni pulsione, e anche della sessualità selvaggia, maschia, che vede la donna immobilizzata e dominata”[5].
La civiltà sta forse morendo, perché non deriva più dal sapere, dalla morale, dall’educazione e dalle buone maniere, tutto si riduce a pulsione : “ Io sono più forte di te e dunque ubbidisci a me”, “Io lo voglio e quindi me lo devo prendere”.
Il dominio della forza mostra vantaggi e procura ricchezze, e la ricchezza non si deve nascondere, sarebbe come celare il proprio potere; ecco la nuova difesa dall’angoscia, il potere.
Il potere o anche l’illusione che tutto è concesso, che tutto si può, che non si ha più bisogno di desiderare perché non esistono freni ai nostri desideri.
La speranza è che l’uomo non smetta mai di desiderare e di porsi delle domande, che ogni tanto sia invaso da qualche dubbio e che ritrovi la forza di saper attendere; solo in una realtà che ristabilisca dei limiti e reali prospettive di realizzazione, l’uomo potrà riappropriarsi di quella componente essenziale di apertura verso l’altro e di spinta motivazionale che è il desiderio.
[1] Freud S., ( 1921), “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”, in OSF, Vol.9, Bollati Boringhieri, Torino, 1996, p.261.
[2] Recalcati M. (2010), L’uomo senza inconscio: figure della nuova clinica psicoanalitica. Raffaello Cortina Editore, Milano, p.IX.
[3]Winnicott D., (1970) Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Editore, Roma. Winnicott definisce madre sufficientemente buona quella madre che, in maniera istintiva, possiede le capacità di accudire il bambino dosando opportunamente il livello della frustrazione che gli infligge.
[4] Recalcati M. (2010), op.cit., p.13.
[5] Andreoli V. (2011), Dialogo tra uno psichiatra e il suo paziente, Rizzoli Editore, Milano, p.192.
Lo psicoanalista e il musicista: l’ascolto musicale nell’ascolto psicoanalitico
Scritto dal dott. Stefano Mengarelli
Ad una prima riflessione ci si potrebbe chiedere: come può la pratica psicoanalitica, non per niente denominata talking cure, in cui la parola assume un significato molto importante, essere associata a un’arte, quella musicale, per la quale la parola è a dir poco superflua?
La risposta sta, come vedremo, nella crescente rivalutazione del non-verbale, che ha ridotto sempre di più lo scarto esistente tra musica e psicoanalisi rendendole due arti non solo reciprocamente utili l’una all’altra ma decisamente molto simili.
L’accostamento alla musica sensibilizza l’orecchio psicoanalitico, lo esercita a dare valore informativo alla forma fonetica delle parole, al significante più che al significato.
Sviluppando una maggiore perspicacia uditiva per i ritmi, le armonie, la melodiosità o il fraseggio di qualunque discorso e potenziando l’acutezza percettiva per le sfumature della voce, invita l’orecchio a scostarsi dai contenuti verbali e a privilegiare i messaggi trasmessi involontariamente dalla vocalità più che dai contenuti del discorso; lo addestra ad ascoltare le inaudite voci dell’inconscio, quelle che, al pari dei lapsus, si infiltrano nella lingua, scavalcandone l’elaborazione cosciente.
La musica possiede inoltre la virtù di stimolare percorsi mentali alternativi, suggerire deviazioni al pensiero, promuovere una mobilità delle idee, che favorisce l’attraversamento di aree psichiche meno frequentate di altre (1).
L’ascolto musicale insegna quindi ad ascoltare ciò che non sappiamo dire. Non si tratta dunque di applicare la psicoanalisi alla musica ma, come dicevamo all’inizio del capitolo, di tentare un’operazione inversa: applicare la musica alla psicoanalisi, per addestrare i nostri mezzi mentali a contattare quello che non può essere detto, qualche tempo prima che lo sia; per esplorare così il campo del pre-verbale.
L’inconscio, come si sa, è privo di un vero e proprio linguaggio paragonabile alla nostra lingua quotidiana. Al di là delle teorizzazioni di Lacan, che lo considera “strutturato come un linguaggio”, l’inconscio non dispone né di un lessico, né di una sintassi, ma solo di qualche funzione espressiva analoga alla metafora e alla metonimia.
L’inconscio però risuona nella mente altrui, fa sentire la sua presenza con modalità pre-verbali piuttosto che verbali, e cioè con modalità musicali più che linguistiche. È per questo che in seduta l’analista ha bisogno di un orecchio musicale(2).
E ne ha bisogno soprattutto quando il paziente gli chiede di funzionare non tanto come intelligenza che spiega le cause, ma come interlocutore capace di interagire con la parte indifferenziata e muta della psiche e di ospitare quelle esperienze che non hanno trovato parole per essere dette o sono in attesa di trovarle. Invece che fornire all’analizzando chiavi per decifrare i suoi “rebus interiori”, occorre allora fornirgli uno strumento ricettivo che supplisca con la sua sensibilità ai deficit espressivi di un oggetto muto qual è l’inconscio. Occorre cioè affiancare la sua mente, che soffre di limitate capacità trasformative simboliche, con un efficace dispositivo d’ascolto (3).
L’ascolto dell’analista deve saper conferire il giusto rilievo a suoni e significanti verbali, cogliendo realtà inaudite del mondo affettivo altrui; così facendo dispone ad una precognizione dell’inconscio .
Quando si parla di elaborazione psicoanalitica, ci si riferisce spesso a un’area di “risonanza interiore”, intesa come una particolare forma di intimità tra il mondo interno del paziente e quello dell’analista, mediata dalla capacità di quest’ultimo di dare ai messaggi dell’altro una prima configurazione sensoriale , che li prepari a diventare parola. In quest’area devono soggiornare i sogni e le fantasie, per poter acquistare senso dicibile. Di Benedetto è del parere che in quest’area lavori un pensiero di tipo musicale , che trasforma le immagini in suoni atti a fungere da precursori del linguaggio verbale (4).
Un tipo di ascolto sensibilizzato ai valori fonici e alle figure emergenti dal suono scova nella musicalità del parlare un risvolto pre-rappresentativo che giace nell’inconscio in condizione di latenza verbale. Da questo punto di vista il latente non è solo un’altra scena sotto quella manifesta, ma anche tutto ciò che sta annidato nei suoni della voce a costituire l’ordito sonoro di un discorso a venire (5).
L’ascolto psicoanalitico, sintonizzato con la dimensione sonora del parlare, funge insomma da dispositivo atto a rilevare e dar senso all’esperienza psichica profonda del paziente, prima che giunga ad essere detta.
Queste considerazioni portano a chiederci in che misura l’esperienza analitica ha analogie con l’esperienza musicale e a ricercare le affinità tra la pratica dello psicoanalista e la pratica del musicista.
A questo punto, possiamo quindi fare una prima considerazione : la musica fonda il suo potere produttivo, creativo, sulla interpretazione che è anche lo strumento principe della psicoanalisi. Ambedue le interpretazioni (quella musicale e quella analitica) consentono di rivelare quello che a prima vista non sta scritto nello spartito (del musicista) o nella narrazione (del paziente). Ambedue leggono/ascoltano il linguaggio secondario che il compositore/analizzando ha lasciato sullo spartito/narrazione che costituirà il linguaggio primario della comunicazione (6).
L’interprete della musica (come lo psicoanalista) penetra in una possibilità data e la modifica, senza però alterarla, e dà una voce altra a un materiale costituito, influenzandone l’espressività. Ciò può permettere all’ascoltatore (o al paziente), di rispecchiarsi e di ritrovarsi in questo nuovo mondo di suoni (o parole).
Il compositore (o il paziente) oggettiva il contenuto del proprio mondo interiore; a sua volta l’interprete (o il terapeuta) tenta una comprensione empatica delle intenzioni e dei concetti del compositore (o del paziente) e li analizza tenendo conto della propria capacità di proiettarli in suoni (o parole) che li modificano di quel tanto che basta a farli recepire dall’ascoltatore ( o dal paziente), senza distorsioni, suggestioni o seduzioni pericolose, stimolando una giusta reattività, un adeguato contatto psicologico e una consapevolezza della logica strutturante (7).
Quello che quindi l’interprete musicista e lo psicoanalista devono fare è dare una voce nuova a un materiale preesistente, oppure, per usare le parole di Augusto Romano : << Al terapeuta spetta di suonare la musica che manca al paziente, che il paziente non conosce, ma che pure è nascosta dentro di lui >>(8).
In una metafora efficacissima Speziale-Bagliacca (9) parla dell’analista come di colui che dovrebbe essere in grado di risuonare come la viola d’amore. In questo strumento ad arco, dalla forma di una viola, una doppia teoria di corde è obbligata a vibrare per “simpatia”, anche se solo una viene toccata dall’arco. Suonano su uguali lunghezze d’onda, accordate all’unisono, ma affinchè si produca della buona musica le corde inferiori, quelle dell’analista, per rimanere nella metafora, non devono suonare autonomamente, ma prestarsi ad arricchire il suono, senza imporsi (10).
L’analista dovrebbe allora accettare la possibilità di farsi transitare dalle emozioni dell’altro nella relazione, ascoltando primariamente la propria vibrazione, la messa in movimento dentro di sé di quei frammenti di pensiero confusi, spaventati, esitanti o semplicemente in attesa di venire alla luce che l’analizzando affida al suo analista attraverso le infinite comunicazioni consapevoli o non, corporee o non, verbali o non, che si intrecciano nell’ora di analisi (11).
L’analista , come dice Di Benedetto, è come un interprete , che traduce <<i segni muti di un pentagramma inconscio>> in un discorso ascoltabile (12); ma tradurre i segni muti di un pentagramma non vuol dire svelare un mistero, ma soltanto farlo risuonare , e dunque assumersene la responsabilità.
Su questa strada ci soccorrono i miti dei popoli, secondo i quali ogni uomo ha ricevuto dagli dei una <<canzone individuale>>, che <<è una melodia che esprime il suo ritmo individuale>>, e un <<suono fondamentale>> che <<costituisce la realtà metafisica ultima e personale del suo possessore>>(13).
In questa prospettiva, la malattia va considerata come un errore che getta l’uomo in balia di uno spirito, <<la cui voce rotta si nutre succhiando la sostanza sonora del corpo umano>>(14); lo scopo dell’intervento sarà quindi quello di ripristinare la musica originaria. Questo corrisponde in analisi, a sentire la musica dell’altro, il suono, il ritmo, qualcosa che sta nelle parole e oltre le parole, ed è la percezione di un andamento, di uno stile, di un’impronta individuale.
Note:
(1) Di Benedetto A., Prima della parola , Franco Angeli , Milano , 2000 , p.160.
(2) Di Bendetto A.(1998), << I sogni suonano? >>, in AA.VV. Morpurgo E.,Egidi V. (a cura di), La forma segreta, Franco Angeli, Milano.
(3) Di Benedetto A. (2002), << La musica come arte speculare alla distruttività della malinconia e alla creatività del lutto>>, Op.cit., pp.98-99.
(4) Di Bendetto A. Prima della parola , Franco Angeli , Milano , 2000 , p.57.
(5) Di Benedetto A. (1993), << La sublimazione nella prospettiva di Bion e Matte Blanco >>, in Riv.Psicoanal., 39, 1.
(6) Mancia M., << Psicoanalisi e forme musicali >>, in Volterra V. (a cura di) Melancolia e Musica : creatività e sofferenza mentale, Franco Angeli, Milano, 2002.
(7) Volterra V., <<La dove finisce il pianto >>, in Volterra V. (a cura di) Melancolia e Musica : creatività e sofferenza mentale, Franco Angeli, Milano, 2002, p.16.
(8) Romano A. Musica e psiche , Bollati Boringhieri, Torino, 1999.
(9) Speziale-Bagliacca, R., << Ferenczi: il corpo, il contenimento e il controtransfert >>, in Borgogno F. (a cura di), La partecipazione affettiva dell’analista, Franco Angeli, Milano, 1999.
(10) Credo che questa intuizione di Speziale-Bagliacca sia estremamente valida per illustrare la riflessione apertasi nella psicoanalisi contemporanea sugli aspetti legati alla partecipazione affettiva e sensoria dell’analista nella relazione, aspetti tenuti in ombra per anni a causa della necessità per Freud di demarcare la distanza della novella scienza, la psicoanalisi, dagli aspetti ipnotico-suggestivi da cui aveva tratto origine.
(11) Carollo R., <<Trasgressioni e trasformazioni nel duetto analitico>>, in Carollo R.(a cura di) La musica del diavolo: il diavolo nella musica, Moretti & Vitali, 2000, p.12-13.
(12) Di Benedetto A. (1994), Ascolto psicoanalitico e ascolto musicale, Relazione al Convegno <<Ascolto psicoanalitico e orecchio musicale>>, Lavarone. Testo dattiloscritto.
(13) Schneider M. (1960), Le Role de la musique dans le mitologie et les rites de civilisations non europeennes, Gallimard, Paris, trad.it. La musica primitiva, Adelphi, Milano, 1962.
(14) Schneider M. (1960), Le Role de la musique dans lemitologie et les rites de civilisations non europeennes, Gallimard, Paris, trad.it. La musica primitiva, Adelphi, Milano, 1962. Ivi, p.120.